Azzerare i rischi nel trattamento dei file

Con quale formato (mi) salvo?

Progettiamo un lavoro, lo finalizziamo, lo salviamo e scatta la fobia di quale formato di salvataggio o esportazione utilizzare. Qual è il migliore? Ma se comprimo che cosa succede?Statisticamente la fobia in realtà forse non è così diffusa perché si usano sempre i soliti due o tre formati. Ma siamo davvero sicuri di fare la scelta migliore? E ne sappiamo il motivo? Di tanto in tanto capita anche di ricevere indicazioni errate, magari in buona fede, a cui seguono contrasti o litigi perché coinvolgono creativi, fornitori ecc…Quindi?

Il flusso nel desktop publishing

In buona parte il flusso di lavoro che si è andato affermando negli ultimi 15 anni è, in questo senso, molto più semplice e lineare di quello precedente. Oggi si riescono a importare direttamente anche diversi formati nativi (o di lavoro), saltando spesso la parte di esportazione specifica, questo soprattutto se lavoriamo con la Creative Suite di Adobe. In ultima battuta infine si esporta in PDF, seguendo dei predefiniti che salvano spesso capra e cavoli, quando addirittura non è il fornitore stesso a fornirci il file job option per azzerare i rischi.

Elenco dei formati di esportazione in Photoshop. Un elenco ancora più lungo si può trovare nel comando Apri, dove vengono mantenuti anche molti altri formati storici ormai desueti (ma non si sa mai).

Formati di lavoro

Fintanto che si lavora sul file, quindi nella quasi totalità del tempo, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che questi siano i formati preferibili. Sono i cosiddetti formati nativi, quelli con cui un applicativo salva e riapre i suoi file di modo da mantenere tutte le caratteristiche operative e i criteri di editabilità specifici, e questo lo fa nel minor tempo possibile compatibilmente alla complessità del file, ottimizzandone la compressione e lo spazio occupato sui dispositivi. Sono formati in costante miglioramento, al pari del software che li genera, pertanto è possibile che col tempo diventino superati dalle loro stesse evoluzioni. Nella quasi totalità dei casi è sempre garantita la retrocompatibilità, di modo che anche a distanza di anni sia possibile aprirli senza limitazioni. Esempi di questi formati sono: PSD (Photoshop), AI (Illustrator), ID (Indesign), QXD (Xpress).

Una piccola, ma doverosa precisazione va fatta in relazione al formato fotografico RAW: qui è improprio parlare di file di lavoro dal momento che nasce come file chiuso a cui viene associato un file XMP dove risiedono le modifiche effettuate dall’utente. È a tutti gli effetti un formato nativo, che contiene tutti i dati grezzi ottenuti in fase di scatto, ed è l’unico caso in cui con l’evoluzione degli algoritmi di calcolo è possibile ottenere immagini sempre migliori a partire dallo stesso file di partenza. In altre parole: un RAW di 15 anni fa aperto con un sw dello stesso periodo genera un’immagine peggiore dello stesso RAW aperto con un sw dei giorni nostri.

Formati di interscambio

Questa categoria è sempre stata molto circoscritta (e ormai inesistente), per lo meno nel suo significato più generico: l’esigenza qui sarebbe quella di salvare in un formato versatile che consenta anche a un applicativo diverso da quello di partenza di mantenere l’editabilità dei vari contenuti. Normalmente il file di lavoro è specifico, per cui, parlando di Photoshop, un eventuale file PSD a livelli (tracciati, canali, ecc…) è improbabile che possa essere aperto con un altro software mantenendo esattamente struttura, opzioni parametriche ecc… anche perché un software diverso avrà inevitabilmente caratteristiche operative diverse, per quanto analoghe. Con il passare degli anni però alcuni sw sono diventati così pesantemente standard di mercato che gli applicativi concorrenti, al posto di basarsi su ipotetici formati di interscambio, hanno preferito considerare direttamente i file proprietari acquistando i moduli di importazione o sviluppandoli internamente con un reverse engineering. Ecco quindi che il file PSD, magari in forma più semplificata, può essere ormai aperto da molti programmi (Anteprima di OSX, Xpress ecc…), anche solo nella sua versione di immagine composita. Un esempio di file di interscambio può essere l’U3D, per l’ambito 3D naturalmente, in controrelazione al 3DS o all’OBJ rispettivamente proprietari di 3D Studio e Maya (comunque di per sé aperti abbastanza agevolmente anche da molte altre applicazioni).

 

Formati di esportazione

Qui entriamo nel nocciolo della questione. Un’esportazione dovrebbe (anzi, deve) essere subordinata a un determinato output, con caratteristiche ben precise in funzione delle esigenze di consegna o di utilizzo. Parlando di file per la stampa con contenuto raster/vettoriale misto la risposta universale sarebbe il PDF, ma i diversi parametri con cui può essere esportato apre un ventaglio di casistiche molto eterogeneo. Parlando di immagini invece possiamo circoscrivere l’esempio ad alcuni formati specifici: TIFF, JPG e, più recentemente, PNG, ognuno con caratteristiche proprie che lo possono rendere preferibile in funzione degli utilizzi.

Le compressioni

Un’associazione errata che spesso ho riscontrato nei vari ambienti grafici è legata al concetto di compressione, unitamente alla perdita di qualità del file. Questo può avere senso parlando di compressioni come il JPG, definita appunto Lossy (con perdita di dati), ma è totalmente errata quando si usano altri sistemi di compressione opzionali come l’LZW o lo ZIP (del Tiff) o l’RLE (del BMP) tanto per citarne un paio. Ho detto «opzionali» perché possono essere (o meno) attivati dall’utente, ma pressoché la totalità dei formati di file esistenti utilizza una propria modalità di compressione dati atta a ottimizzare lo spazio occupato in funzione della quantità di dati contenuti. Generalmente vale la regola che più un file è compresso e più tempo ci vuole per il processo di decompressione, quindi occuperò meno spazio sui dispositivi di salvataggio (HD, SSD, Usb Keys, CD, DVD, BluRay ecc…), ma richiederò più risorse di calcolo all’apertura. Viceversa un file non compresso (o compresso poco) avrà un peso grezzo elevato ma una velocità di apertura massimizzata, ecco perché per un progetto con molte pagine e molte immagini può essere ben preferibile utilizzare immagini non compresse, ma apparentemente molto pesanti, al posto di immagini molto compresse e apparentemente molto leggere. Funziona come la logica dei pacchetti per i corrieri: per l’invio si prepara una scatola con dentro tutti i pezzi messi bene, per l’utilizzo si apre la scatola e si montano i pezzi. Assolvono a due scopi diversi.

Salviamo il JPG

Mentre c’è ben poco da dire riguardo a una compressione LZW o ZIP nei file TIFF (sono Lossless, non fanno danni, fine del discorso), bisogna spendere due parole su quella JPG. Se è vero che da tempo esiste un poco usato JPG2000 dotato di (anche) una modalità di compressione Lossless, il JPG usato correntemente è risaputo che danneggi l’immagine in maniera irreversibile e in maniera progressiva, anche utilizzando la massima qualità (e minima compressione) possibile. Il processo di apertura/salvataggio/chiusura ripetuto più volte porta a un deterioramento dell’immagine come se ne facessimo ogni volta un riassunto, tanto più evidente quanti più sono i passaggi. Photoshop offre 12 livelli di qualità nel salvataggio tradizionale e una scala da 0 a 100% per il Salva per Web/Esporta risorse, oltre a un più generico elenco esplicito di Minima/Bassa/Media/Alta/Massima nelle impostazioni interne al PDF. Di quei 12 livelli non ha mai senso usare oltre il 10 in quanto l’11 ed il 12 erano stati introdotti storicamente dagli sviluppatori (e poi lì dimenticati) a scopo di test, ma di fatto hanno una differenza visiva che rasenta lo 0 al prezzo di un peso che lievita sensibilmente. La scala percentuale invece si basa su algoritmi più recenti e raffinati, ma non sono adatti a immagini grandi, tipicamente dedicate alla stampa, sostanzialmente perché richiedono molte più risorse di sistema e molto più tempo di elaborazione.

Ma il JPG quanto rovina?

A questa domanda generalmente non risponde nessuno, o quasi. La compressione JPG considera una matrice di quantizzazione di 8×8 pixel, entro la quale compie delle approssimazioni legate a una media tra valori di luce e/o valori cromatici, riassumendoli e semplificandoli. Mentre per immagini dedicate al web o al video questi blocchetti di 8×8 possono risultare visibili a fronte di valori di qualità bassi o di reiterati salvataggi, lo stesso non si può dire per le immagini dedicate alla stampa dove sono in gioco molti più pixel. È piuttosto logico pensare che su un’immagine di 800 pixel di lato l’incidenza di questo, passatemi il termine, mosaico di compressione, sia molto più evidente e potenzialmente dannosa, di quanto non possa esserlo su un’immagine da 4000 pixel che poi va stampata (a cui si somma quindi un minimo impastamento dato dal dithering o dal retino di stampa).

Facendo qualche rapido calcolo in termini di solo dettaglio l’immagine da 4000 pixel stampata a 300 ppi (non dpi, mi raccomando) occupa uno spazio di circa 33 cm di lato, all’interno di quest’area una matrice di 8×8 pixel è di circa 0,7 mm, quindi scarsamente risolvibile a una distanza superiore ai 25 cm dall’osservatore. In questi termini demonizzare il JPG sarebbe inutile, oltre che poco logico. A questo dobbiamo aggiungere tuttavia una certa difficoltà nella gestione delle campiture colorate omogenee, come i cieli, dove la compressione JPG tende a generare delle posterizzazioni decisamente poco piacevoli, anche a valori di qualità elevati.

In conclusione

In base alla distanza dell’osservatore dall’elaborato stampato, o dall’eventuale video, e alla tipologia di immagine da salvare, il JPG può andare benissimo o un po’ meno bene: immagini con molti dettagli sottili (alte frequenze) e campiture uniformi come certi cieli possono risentire della compressione, in tutti gli altri casi l’immagine risulta sostanzialmente indistinguibile dall’originale, anche a fattori di zoom elevati e in comparativa simultanea.

La comparativa di una porzione di immagine molto grande (oltre 42 mpixel) con l’originale in alto e la versione compressa a qualità 0 in basso. Entrambe sono state poi ingrandite per rendere più evidenti le differenze sulla rivista stampata. Qui riusciamo a rendere visibile sia l’impastamento del micro dettaglio sia la pastorizzazione dello sfondo.
Una comparativa dove vengono messe a confronto le differenze tra l’originale e la relativa versione salvata in JPG a qualità molto alta (qualità 10, a sinistra) e molto bassa (qualità 0, a destra). Il risultato di sinistra è stato amplificato di oltre 100 volte perché fosse visibile, quello di destra invece solo del doppio e per pure esigenze di stampa su rivista. Senza l’amplificazione dei risultati quella di sinistra sarebbe stata all’occhio totalmente nera (quindi a maggior ragione indistinguibile dall’originale se visualizzata in modalità normale) mentre quella di destra avrebbe delineato buona parte degli artefatti, anche se non in maniera così evidente. L’immagine di destra corrisponde alla comparativa sovrapposta delle foto in immagine 2.

 

 

 

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