Dalle scuole alla produzione: un ponte da rafforzare
di Enrico Sbandi
Il responsabile HR del del Gruppo Editoriale San Paolo parla della sua delega come vicepresidente dell’Unione GCT Milano e degli scenari che si presentano oggi per le aziende di stampa
Una lunga esperienza nelle risorse umane che porta alla vicepresidenza dell’Unione GCT Milano con delega alla formazione, nel senso ampio del termine. Un incarico di sostanza per l’eccellente tradizione e struttura vantata dall’Unione nel campo specifico. «A cui va aggiunto l’egregio funzionamento di Enip-GCT e dei collegamenti con il mondo delle scuole grafiche e degli ITS che ruotano intorno alle professionalità del nostro settore», spiega Sergio Pedrazzini, 59 anni, gli ultimi trenta dei quali spesi, professionalmente parlando, nel settore editoriale.
«Interpreto l’incarico ricevuto dalla presidente Lara Botta non come invito a cambiare, ma a individuare soluzioni ulteriori, implementare ancora meglio tutto quello che l’Unione e i nostri istituti rappresentano. Il fatto che mi occupi da sempre di risorse umane mi permette di dare un contributo maggiormente legato alle specifiche esigenze del mondo del lavoro e della produzione. Operando all’interno delle aziende si ha esperienza di mansioni difficili da inserire in programmi scolastici, ma che nascono “on the job” e possono essere comunque integrate in percorsi formativi, migliorando le opportunità e la rispondenza fra i bisogni delle aziende e il lavoro delle scuole».
Adesso avetefra le mani “Mattia fa le scatole”, è una delle leve che aiutano a fare quello che sta dicendo?
«Il cortometraggio (realizzato da Enip-GCT in collaborazione con Argi, Acimga, Assografici e Assocarta e con il patrocinio della Federazione Carta e Grafica, ndr.) è un tool prezioso, un esempio di ciò che viene già prodotto e fatto, ben riepilogato in un video capace di esercitare impatto anche dal punto di vista della comunicazione e del marketing. È importante che rappresenti non solo quello che si può fare, ma quello che già si fa».
Lei lavora nel Gruppo Editoriale San Paolo, non uno stampatore puro…
«Dal 1991 mi occupo di risorse umane, dal 1996 nel contesto editoriale: Rizzoli RCS, Centauria, oggi Gruppo Editoriale San Paolo, ma nei primi anni, fino al 2003, sono stato all’interno del gruppo Sfera, uno dei primi associati all’Unione (esperienza che mi portò già allora, molto giovane, in consiglio e anche nel consiglio dell’Enip-GCT), perché la nostra società era un gruppo che aveva all’interno sia la parte editoriale, che sviluppava periodici, sia la parte preindustriale, quando esisteva ancora la prestampa, sia un’azienda di stampa. Mi trovavo quindi a gestire il personale sui diversi profili. Poi la prestampa è evoluta, integrandosi di fatto nella lavorazione a valle, grazie alle tecnologie. Il focus dell’Unione comincia dalla parte grafica – con stampa, packaging e attività collegate – ma ha sempre avuto al suo interno il settore degli editori, che è a monte del processo e quindi parte significativa della filiera, Il Gruppo Editoriale San Paolo non è un caso unico fra gli associati. Di fatto le quattro vicepresidenze individuate dalla presidente Botta vanno a rappresentare tutte le aree che confluiscono nell’Unione. Oggi il Gruppo di fatto acquista i servizi di stampa, da associati all’Unione, in passato aveva poli industriali di stampa di grandi dimensioni, sparsi un po’ in tutta Italia, a partire da Alba, in Piemonte, dove l’azienda nasce. Adesso siamo concentrati sull’attività editoriale».
Editoria che non sta benissimo, la verticalità del Gruppo Editoriale San Paolo è un vantaggio?
«Si può dire che soffriamo meno degli altri. L’editoria sta pagando lo scotto del digitale, di fruizione dei contenuti in formati digitali che pure produciamo, ma che sono molto meno efficaci dal punto di vista della remuneratività. Ci occupiamo di editoria su tre livelli: abbiamo un canale televisivo, editiamo libri, distribuiamo e vendiamo anche nei punti della nostra catena, infine abbiamo i periodici. Gli andamenti di tutti e tre i segmenti risentono del momento, il settore dei libri è quello che soffre meno essendo stato toccato solo in maniera parziale dal digitale. Il classico libro di carta continua a fare il suo effetto e nel confronto fra il mercato in generale e quello da noi presidiato posso dire che andiamo mediamente meglio, pur se con le stesse dinamiche. Anche nel mercato del periodico, quello maggiormente colpito dall’avvento di internet e del digitale, si registra calo costante dei lettori, ma comunque anche lì riusciamo a ottenere risultati un po’ superiori alle medie generali. I nostri abbonati hanno una fidelizzazione spinta di carattere ideologico, di pensiero, spirituale, c’è un’affezione tale da permetterci di guadagnare qualche punto percentuale nei cali strutturali di vendita».
«In generale, il calo delle vendite di tutti e tre i segmenti (abbonati, edicola e canale specifico del mondo religioso delle parrocchie) è ogni anno nell’ordine dei 7-8 punti percentuali, noi riusciamo a restare mediamente da 1 a 2 punti al di sopra. Chiaramente sta risentendo di più il canale edicola, complicato da un problema di punto vendita, mentre sugli abbonati il calo è compensato da qualche nuova adesione e comunque da un’alta fidelizzazione dei rinnovi. Si può indicare una contrazione del 5 rispetto a una media generale del 7%».
Che approccio avete con il drenaggio dei contenuti da parte delle piattaforme di AI? Come difendete, come create valore attraverso i vostri contenuti che presentano caratteristiche di specificità ed esclusività più marcate rispetto a editori generalisti?
«Il problema è farci riconoscere un’equa remunerazione dalle piattaforme digitali che sfruttano il diritto autorale degli editori. Anche a livello federale e associativo sono in corso iniziative che vanno in direzione dell’applicazione delle leggi già esistenti, che prevedono remunerazione del testo autorale messo in rete. È un negoziato che parte dalla norma scritta, ma che non ha ancora trovato un punto di sintesi nell’applicazione. Non possiamo fermare ciò che il digitale consente, possiamo però normarlo e far riconoscere una giusta remunerazione a chi ci spende dietro del denaro, oltre che la responsabilità».
L’AI certamente drena contenuti. Ma quanto vi agevola dal punto di vista operativo?
«Tutto il mondo della comunicazione digitale in senso lato e da ultima l’AI vanno a incidere su quello che facciamo. Eppure sono convinto che il giornalista professionista non potrà mai essere sostituito, ma sarà sempre più il motore intelligente della strutturazione di un giornale, in senso lato, che sia poi cartaceo, digitale, periodico, di approfondimento o altro, rispetto a fare delle attività più esecutive, materiali. Oggi andiamo a fruire di contenuti superiori di 5-6 e più volte rispetto a quando non c’era il mondo digitale, più informazione si produce di qualità, più ci sarà chi è attratto dal consumarla. C’è ancora uno spazio, in base al quale anziché diffondere cose improvvisate, chi ha i contenuti deve mettere in giro il meglio di cui è capace, sotto tutti i punti di vista, perché il consumo è aumentato, abbiamo il telefonino in mano tutto il giorno, tutto passa da lì. Non dobbiamo vederla in termini negativi, ma in una logica diversa, l’AI deve aiutarci a produrre di più, ma senza sostituire il manico. Oggi è un timore forte, perché chi è tentato di fare senza l’essere umano c’è. Ma alla lunga, e neanche tanto, si realizzerà che l’AI deve essere adoperata per produrre di più e meglio, non per realizzare facendo a meno dell’essere umano».




