Interior decoration

Interior decoration, la parola all’architetto

Un cambiamento improvviso nelle abitudini e nello scenario è sinonimo anche di grandi opportunità per mercati come l’interior decoration. Un’occasione da cogliere, rinnovandosi senza esitare.

Provando a guardare oltre i più recenti stravolgimenti di una comunicazione visiva per il momento concentrata soprattutto sulla segnaletica di sicurezza, è il momento di iniziare a pensare di più a lungo termine. Di fronte a uno scenario destinato a cambiare radicalmente anche in settori fino a un anno fa in pieno slancio come l’interior decoration sono chiamati a una correzione di rotta.

Una situazione alla quale inevitabilmente adattarsi senza esitazione e dalla quale si può uscirne in diversi modi. A parte rare eccezioni, tutti risultato delle proprie decisioni. Secondo l’architetto e docente a contratto alla Scuola del Design del Politecnico di Milano Paola Silva Coronel, per chi è pronto a mettersi in gioco, le opportunità non mancano.

Dove si trovava il mondo dell’interior decoration a inizio 2020?

L’interior decoration è, fondamentalmente l’idea di aggiungere del bello al necessario e questa visione, apparentemente semplicistica ha portato molti settori dell’industria del digitale e della comunicazione a cercarvi, se non un’ancora di salvezza, un mercato da conquistare. È vero, come diceva Fëdor Dostoevskij che “La bellezza salverà il mondo”, ma da qui a risolvere un intero mercato ne passa. L’interior decoration, proprio perché chiama in causa l’estetica, non è per nulla una questione “facile”. Io sono più del parere che sia una tematica delicatissima, in cui sbagliare è facilissimo e riparare al danno non sempre facile. Non è un caso, se è materia di studio in molte università e accademie.

Come dobbiamo inquadrarlo allora?

Una scienza orientata a rendere i luoghi più accoglienti e a interferire (possibilmente in modo positivo) con la percezione delle persone che li abitano o li attraversano.  Un elemento che determina il desiderio di trattenersi più a lungo o scappare il prima possibile da un certo ambiente. Per molti anni, la totale assenza di “decorazioni” negli uffici e la presenza delle abitazioni ha creato un divario percettivo, che è l’eredità degli ultimi 50 anni della nostra storia. Se negli ultimi decenni la decorazione, in termini di physical branding è entrata negli uffici, l’eredità dell’architettura scandinava ha “semplificato” le abitazioni, rendendo di fatto questi due mondi più simili, come non lo sono mai stati. Lo smartworking di questo lockdown è stata una conferma per tutti, su come le abitazioni possano essere anche degli accoglienti uffici: ora dobbiamo capire, come gli uffici riusciranno a essere delle accoglienti abitazioni.

L’interior decoration è ancora un elemento caratterizzante?

Assolutamente sì. Sono gli ambienti che sono sempre più “gender free” per usare un termine attuale. Se prima si parlava di casa e di ufficio e le rispettive identità iconografiche erano molto chiare, oggi assistiamo a un crescendo di luoghi ibridi: strutture di co-working, alberghi attrezzati e tutti quegli spazi comuni, che stanno definendo i nuovi insediamenti residenziali e commerciali e credo sia un bene. La concezione di casa fatta da salotto, camera da letto, ingresso e cucina, di memoria Vittoriana, credo stia davvero per tramontare. La necessità di spazi differenti dove fare attività nuove sarà la spinta nei prossimi anni per studiare una nuova generazione di luoghi.

Come pensa saranno ridisegnati questi spazi interni?

Certamente su misura di chi li abita. Il successo dello yoga e della meditazione di questo ultimissimo periodo, ci dice che l’attenzione al proprio benessere è cresciuta e che questo benessere non è fatto solo di cose materiali (cibo, soldi, potere), ma ha una grandissima componente immateriale. In architettura si chiamano “soft qualities” quegli elementi come la luce, il clima, la tattilità delle superfici che contribuiscono alla percezione e all’apprezzamento dello spazio. Sembra evidente che l’avvento della tecnologia ci porti a essere più stanziali in un luogo, da cui riusciamo ad accedere a più cose: ordinare cibo, fare shopping, lavorare, intrattenersi, visitare musei. Adesso sembra che questo luogo sia la casa. Lo sarà ancora per un po’, ma non credo sarà quello definitivo. Se gli ambienti stanno diventando gender free, i complementi d’arredo sembrano “gender blind”: non più oggetti legati a un ambiente, ma utili per la situazione in cui ci si trova. Una sedia da ufficio in un salotto non è certo adatta, ma vanno anche risolti i problemi di ergonomia introdotti con lo smart working.

Gli spazi disponibili però sono rigidi, se dovranno assolvere a più funzioni potrebbero non essere più sufficienti…

C’è un fenomeno già in corso. A Parigi, l’idea di città da quindici minuti suggerita dal sindaco di Parigi, ha aperto il dibattito sui nuovi criteri del vivere. In Italia, lo stiamo vedendo con il fenomeno del South working e dei City quitter, persone che lasciano le città per trovare spazi più ampi (e più economici) nelle periferie e nelle campagne. Lo spazio è sicuramente il bene più prezioso che abbiamo e di cui c’è sempre una costante ricerca. Ritrovare l’equilibrio tra spazi urbani e spazi periferici, tra case e uffici sarà certamente la sfida per il prossimo decennio.

Cosa ne sarà delle strutture, anche grandi, destinate a uffici?

Al momento, moltissime aziende stanno toccando con mano soprattutto i grandi risparmi. Sulle prestazioni lavorative molti pareri contrastanti. È certo che vivere i luoghi del lavoro non è solo una questione di performance. Il tema del senso di appartenenza, e quindi di fedeltà, a un’azienda è un aspetto cruciale. Negli ultimi anni abbiamo assistito al ritorno dei “corporate building” come manifesto dell’identità e della forza di un’azienda. È una tradizione che affonda le radici nell’America degli anni ’50, che per decenni sembrava superata, ma che oggi è nuovamente un tema di grandissima attualità, basta guardare tutte le nuovi torri costruite a Milano. Il tema della presenza fisica negli uffici, credo sia un’urgenza, soprattutto per un Paese con un costo del lavoro relativamente caro come l’Italia. Se passa l’idea che la presenza non è necessaria, ci sarà una massiccia delocalizzazione di risorse umane, in cui difficilmente potremmo spuntarla su Paesi come l’est europeo con risorse umane meno care. Quindi credo torneremo negli uffici e questi dovranno nuovamente cambiarsi d’abito, per accogliere ancora meglio.

Come si riflette sul mondo della stampa digitale?

La stampa digitale è sicuramente lo strumento più duttile per questo cambio d’abito. Anche solo cambiare il colore di una stanza, può stravolgerne la percezione. Il physical branding è sicuramente la via che porta la stampa digitale negli interni. Un tempo ci si limitava a scegliere i colori in linea con quelli istituzionali, oggi si cerca di raccontare delle storie, costruire delle identità. Si può rendere accogliente qualsiasi spazio decorandolo; in fondo è lo scopo principale dell’interior decoration. Inoltre, così facendo si rende un luogo più riconoscibile. Personalmente, volendo guardare avanti, credo che nei prossimi anni l’interior decoration conquisterà l’exterior dei palazzi o, se preferiamo, l’interior decoration della città. Dalle facciate dei palazzi ai graffiti di scala urbana, l’exterior decoration sembra essere un trend in crescita. In fondo, lo facevano già in passato i pescatori liguri, quando coloravano le loro case con colori differenti, per poterle riconoscere dal mare.

Chi potrebbe azzardare la prima mossa?

Può partire tranquillamente da noi architetti.  Abbiamo già la responsabilità, quando progettiamo un edificio, di costringere le persone che ci passano davanti a guardarlo. Come siamo abituati a parlare di interior design, possiamo iniziare a ragionare sull’exterior design. Tecnologie e materiali lo rendono già possibile. Oggi il tema delle facciate è vissuto soprattutto in termini energetici, credo che il tema decorativo seguirà a ruota. Qualche segnale si può già vedere, e non solo nelle grandi vetrine del mondo retail. Ormai è abitudine sfruttare le luci dei grandi palazzi per scritte o messaggi. Un segnale interessante della voglia di comunicare.

Come viene inquadrato tutto questo dal mercato?

L’interior decoration viene spesso percepito ancora come qualcosa di accessorio, non indispensabile. Il termine andrebbe rivalutato, oggi è ancora un po’ trascurato. Frutto anche dell’architettura razionalista molto orientata alla funzionalità. In realtà, si parla di qualcosa in grado di migliorare la percezione degli spazi. Quindi, importante anche se non così facile come può sembrare. Basti guardare, per esempio, alle carte da parati, ormai facili da proporre e applicare, non certo da disegnare; servono persone capaci di analizzare gli ambienti.

Dove colloca il decoro in un progetto?

Un elemento forse anche inutile dal punto di vista razionale, ma certamente in grado di aiutare a stare bene in un ambiente. Potremmo considerarlo come la meditazione rispetto alla medicina. È immateriale, non contribuisce a guarire, ma procura benessere. Credo anche sia stato trascurato per troppo tempo, per la paura di sbagliare. Il decoro richiede cultura e sensibilità, qualità non facili da mostrare. Quindi, nel dubbio, a volte si preferisce non fare niente.

Come vede delinearsi lo scenario a emergenza sanitaria superata?

Mi auguro riporti attuali i temi delle competenze. Prima di tutto, vuol dire non improvvisare. Nel nostro ambiente, conoscere Photoshop non significa necessariamente saper disegnare una carta da parati. Ognuno di noi dovrebbe partire da una riflessione, riconoscere le proprie competenze e sfruttarle, accettando però anche i limiti e affidarsi ad altri senza remore. Il lavoro di squadra nasce proprio per combinare competenze diverse.

A che punto siamo?

L’interior design nella comunicazione visiva e nella stampa digitale è un tema ancora relativamente recente. Quindi, dove tanti si sentono liberi di dire la propria. Uno degli incubi maggiori per un architetto quando riceve un invito è vedersi mostrare lavori fatti per contro proprio. I risultati eccellenti non mancano, frutto di cultura e sensibilità, ma non sempre. Non bastano due colori e qualche scritta per parlare di interior design. Per esempio, vedo spesso muri in mattoni realizzati con carte da parati. Perché allora non usare i mattoni veri a vista? Si mantiene il senso della profondità, della materialità.

Cosa pensa resterà di quanto abbiamo imparato in questi mesi?

Dal punto di vista pratico, alcune norme elementari di convivenza. Per esempio, se una persona è ammalata deve stare a casa. Andare ugualmente in ufficio non è un atto di eroismo, è un danno per l’intera comunità. Bisognerà stare molto più attenti alla mobilità, e questo porta a rivedere la comunicazione nei luoghi condivisi. Un’occasione utile anche per recuperare cultura e natura originale di un luogo attraverso indicazioni e grafica. Si può condividere un codice etico anche solo a scopo informativo oltre che commerciale. Spesso, comportamenti poco corretti sono solo il frutto di una carenza di spiegazioni. Anche questo è interior.

Quali sono i suoi consigli?

Prima di tutto, non improvvisare. Quando tengo un corso, spingo molto sulla necessità di capire il mondo in cui ci si muove o in cui ci si vuole muovere. Guardarsi intorno con attenzione per capire come sono gli ambienti in cui si vuole intervenire. Anche se molti non ritengono sia necessario farsi un minimo di cultura sull’argomento, ci sono delle tendenze da considerare. L’interior design è risultato di una combinazione di fattori, conoscitivi, sociali e anche politici. Poi, indispensabile grande attenzione alla sostenibilità, oggi imprescindibile.

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