Prestampa

La risoluzione ottimale per i contesti d’uso

Come orientarsi fra le risoluzioni in funzione della destinazione del prodotto stampato: dimensioni e contesti d’uso più comuni.

In realtà non ci si può aspettare un’unica soluzione, i valori di riferimento naturalmente ci sono, ma senza aver capito la regola non c’è speranza di gestire le (molte) eccezioni.
Proverò a sintetizzare dei contesti d’uso proponendo dei valori e dei casi notevoli, però è importante non considerarli come assoluti.

DPI o PPI?
Se parliamo di immagini digitali è corretto usare PPI, quando parliamo di dispositivi di stampa allora usiamo DPI. Nel mondo della grafica è tuttora frequente sentire DPI per entrambi i contesti, con conseguente sovrapposizione di concetti e occasioni di confusione, non dimentichiamo però che i software di grafica di riferimento (Adobe, Quark ecc…) li usano correttamente, prestare attenzione a ciò che mostrano aiuta a discriminare gli usi. Il primo manuale software di Desk Top Publishing (Alto, della Xerox, del 1976) si riferiva agli attuali Pixel come Point, e i vari Aldus, Adobe, Macromedia ecc… hanno sempre mantenuto correttamente la distinzione PPI/DPI. Presumibilmente la “colpa” di aver diffuso DPI impropriamente risale al marketing di Apple, di quasi 10 anni posteriore, tuttavia non sono riuscito a trovare con assoluta certezza la prima causa storica dell’errore.

72 “DPI”, si o no?
I motivi storici per cui si tramanda che le immagini per una destinazione schermo debbano avere una risoluzione di 72 (o 96) sono stati già sintetizzati alcune pagine indietro, oltre che in un mio articolo di alcuni anni fa.
Di fatto le immagini per uso video non hanno alcun bisogno di una risoluzione in PPI, contano solo le loro dimensioni in pixel. Non è un caso che tutte le fotocamere riportino dei valori in Megapixel quando parlano delle loro prestazioni, in nessun caso troverete in scheda tecnica un’informazione del tipo: scatti formato “A4 a 300 PPI”. Quelle applicazioni che tengono arbitrariamente conto del valore della risoluzione pur essendo destinate a un ambito video usano logiche “soggettive” per mettere in relazione le conseguenti dimensioni fisiche con griglie di pixel che di fisico non hanno niente (diverse applicazioni per le presentazioni o per il gaming ad esempio).
Queste discrepanze sostanzialmente svaniscono quando ci spostiamo dalle immagini statiche ai video, lì contano (giustamente) solo i pixel di base e altezza, la risoluzione è un non-valore.
Se ve ne serve uno mettete pure 72, è per lo più irrilevante e vi risparmierete discussioni con chi è convinto che cambi qualcosa.

Le immagini in “alta” vanno a 300
Il significato di immagini in “alta definizione/risoluzione” non è univoco, ma è condizionato dal contesto. Spesso lo si utilizza in relazione alle immagini obbligatoriamente a 300 PPI, ma senza informazioni riguardo le dimensioni dell’immagine di partenza questo valore non è un discriminante.
Valutare esclusivamente il valore di risoluzione è sbagliato, ad esempio un’immagine di 350×250 pixel a 300PPI sarebbe “in alta” soltanto nel caso di un francobollo, invece una da 2480×3508 pixel a 50 PPI (circa 126×178 cm) sarebbe perfetta per una A4 a 300 PPI senza alcun ricampionamento (basta ridisporre i pixel esistenti).
La stessa immagine da 350×250 pixel di cui sopra potrebbe essere una buona thumbnail (miniatura) per uso web, ma già per schermi HiDPI ce ne vorrebbe una magari con il doppio dei pixel, quindi 700×500, per occupare lo stesso spazio fisico a schermo.
Nella maggior parte dei casi di stampa commerciale possono essere più che adeguate immagini con risoluzioni di Output da 260/220 PPI, o anche 150 PPI (o meno) per le stampe su quotidiano, mentre per stampe d’arte o super risoluzioni tipiche dei sistemi anti contraffazione si può anche puntare a valori oltre i 400 PPI.
Le modalità con cui il RIP andrà a generare i retini di stampa sono fondamentali per lo sfruttamento (o meno) di questi valori.
E pensare che non abbiamo considerato esempi di immagini puramente bitmap, dove i valori arrivano tranquillamente a ottuplicare.
In sostanza: una volta d’accordo sulle dimensioni fisiche di un’immagine possiamo sicuramente ritenere i 300 PPI come un dato indicativo per una buona risoluzione di Output, ma trattandosi di un dato che, da solo, non garantisce la qualità dell’immagine, le eccezioni possono essere tante.
A parità di dimensioni fisiche il peso non compresso di un’immagine a 300 PPI è esattamente il doppio di una a 212 PPI, ed in presenza di grandi quantità di file potrebbe risultare decisamente scomodo trattare immotivatamente il doppio dei dati.
Un rapido confronto tra chi si occupa di prestampa e chi di stampa solitamente scioglie ogni dubbio, e diventa obbligatorio per le produzioni meno banali.

Immagine varie risoluzioni
Questa immagine composita presenta simultaneamente 6 diverse risoluzioni di Output ed è prevalentemente caratterizzata da microdettaglio e buoni contrasti. Guardandola a diverse distanze si può verificare quanto dettaglio viene risolto e se vengono percepite differenze tra le varie sezioni con l’aumentare della distanza di visione. A circa 1 metro di distanza la differenza tra i 72 e i 150 sarà lievemente percepibile, ma non significativa (72 sarebbe il valore limite sotto il quale meglio non scendere, per una visione da 110 cm). Il fatto che ci siano molte alte frequenze e motivi geometrici riconoscibili aumenta la probabilità di notare i contorni leggermente sfocati.
I valori di 300, 450 e 600 sono equivalenti, e nel caso della stampa subentrano anche le frequenze e le tipologie di retino (o dithering) utilizzate.

Le immagini in alta devono essere “pesanti”
Anche questo è un luogo comune duro a morire. Anche usando dimensioni in pixel congrue, la stessa immagine salvata in TIFF senza compressione, TIFF con compressione LZW, TIFF con compressione JPG, PNG, JPEG o EPS (che a sua volta avrebbe altre opzioni analoghe) ecc… può avere sensibili differenze di peso finale.
I contenuti del file determinano l’efficacia con cui gli algoritmi di compressione riescono ad agire, ma non è raro avere variazioni anche di 10 o 15 volte tra il file più compresso e quello non compresso.
Inoltre, file non compressi vengono processati più rapidamente di qualunque file compresso, proprio perché tutto ciò che è compresso poi deve essere decompresso, se è fondamentale contenere il peso di archiviazione sarà preferibile una strada, se invece sarà più importante ottimizzare la velocità di processo potrebbe essere preferibile un’altra, diametralmente opposta.

Legge diritti autore
Anche la legge sulla riproduzione e sui diritti d’autore (633/1941) risulta molto vaga sul concetto di risoluzione. Nella revisione più recente dell’articolo 108 comma 3bis è stato stralciato il termine di “bassa risoluzione”, presente invece nell’art. 70 comma 1bis dove si dice che «È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro…omissis».
Mentre è chiaro cosa si intenda parlando di lucro è invece fortemente variabile l’uso di “bassa risoluzione o degradate” non essendo valori quantificabili nemmeno chiamando in causa i fantomatici valori di 72 o simili (v. righe sopra).
Ci sarebbe una sezione che dovrebbe mettere tutti d’accordo quando si parla di immagini di definizione tale da non poter essere ulteriormente riproducibili, ma per evidenti motivi questo sarebbe, oltre che interpretabile, anche molto limitante nell’uso di immagini per qualunque scopo.
Pensate all’immagine di un quadro con talmente pochi pixel (e/o compressioni talmente elevate) da risultare a malapena intelligibile, certamente non sarebbe replicabile, ma sarebbe già in origine perfettamente inadatta a qualunque scopo visivo.

Stampa grande formato
Il grande formato (soprattutto il grande formato) dipende dalla distanza di visualizzazione a cui si ritiene si dovrà trovare l’osservatore.
Se un 6×3 metri sarà visto da non meno di 10 metri allora l’immagine da usare potrà avere una dimensione reale di 6×3 metri con una risoluzione di 8 PPI.
Se invece il 6×3 metri fa parte di un’installazione muraria interna, supponiamo, a un aeroporto, e l’osservatore si potrà tranquillamente trovare anche a mezzo metro di distanza, allora non sarà consigliabile scendere sotto ai 160 PPI (180 Megapixel e circa 2 GB di peso grezzo).
Si tratta di valori indicativi, subordinati al tipo di soggetto e di dettaglio rappresentati, se è possibile disporre di valori superiori ben venga, l’occhio non sarà in grado di risolvere pienamente il dettaglio ma la sensazione percettiva sarà comunque migliore.
Immaginate la chioma di un albero ad una decina di metri, che voi siate in grado o meno di distinguere le venature delle singole foglie (e non lo siete) quel dettaglio è comunque presente, se il vostro file digitale volete che contenga dettagli (quindi pixel) non risolvibili per la destinazione d’uso finale avrete file di lavoro immotivatamente grandi, con tempi di lavorazione e processo immotivatamente lunghi,
E anche il tempo, si sa, è denaro.

Dipendenza dal supporto
Considerando le dimensioni dei supporti più comuni, come ad esempio cartoline, riviste, tabloid et similia, poster ecc… il principio di base non cambia, conta sempre e solo la distanza di osservazione in relazione ai contenuti.
La distanza di lettura media è tra i 25 e i 40 cm, in quell’intervallo i valori teorici di risolvenza sono rispettivamente tra i 320 e i 200 PPI.
Che stiate guardando una cartolina o un quotidiano poco cambia, anzi, la cartolina potrebbe avere un soggetto fotografico che incoraggia una visione leggermente più distante, mentre un quotidiano presenterebbe del testo piccolo che richiederebbe una visione più ravvicinata (presbiopia permettendo).
Gira una regola spiccia che chiama in causa la diagonale del supporto, questa regola funziona davvero in pochissimi casi e risulta contraddittoria nei restanti. Recita grosso modo così: la distanza di osservazione è tra 1,5 e 2 volte la lunghezza della diagonale del supporto.
I motivi per cui non funziona sono i seguenti:
– immagini con soggetti che richiedono analisi minuziose, quindi con molto microdettaglio, incentivano la vista ravvicinata;
– immagini con campi medi o campi lunghi incentivano (anche inconsciamente) una vista rilassata, quindi non incentivano l’avvicinamento;
– i due comportamenti appena descritti derivano dalla nostra evoluzione, da come reagisce il nostro sistema visivo ed il nostro senso del pericolo (cioè la nostra attenzione): la nostra vista si è evoluta per discriminare al meglio minacce entro un’area di 8/10 metri, oltre questa distanza il nostro cristallino è perfettamente rilassato ma entro questa distanza percepiamo, proporzionalmente, più dettagli. La corrispondenza è biunivoca, pertanto la presenza di molto dettaglio richiede inconsciamente la nostra attenzione, la sua assenza invece no.
– nel caso di un francobollo, mediamente grande circa 3×2 cm, la sua diagonale non arriva a 4 cm, non per questo proveremmo ad avvicinarci a 6/8 cm per guardarlo.
– nel caso di un foglio A4 la diagonale è intorno ai 36 cm, l’osservazione di riferimento sarebbe quindi compresa tra 53 e 72, quindi intorno ai 60 cm di media. In questo caso è una distanza coerente, che ancora una volta non tiene però conto del contenuto.
– un foglio A3 ha una diagonale di 51 cm, secondo il ragionamento di cui sopra ci dovremmo trovare tra i 76 cm e 1 metro. Considerate che il braccio di un uomo adulto medio è lungo circa 70 cm, quindi avete due strade: o non potrete mai guardare bene un foglio A3 oppure ve lo farete tenere a questa distanza da un amico (o da un muro).
– Con le dimensioni di un giornale quotidiano la questione diventerebbe comica, specialmente in formato aperto.
Questa regola, quindi, è proprio campata per aria? No, una base logica ce l’ha, ed è riferita a quell’angolo di visione entro cui percepiamo meglio le forme, quindi circa 30° (v. il primo articolo di questo speciale).
Posizionando un A4 nel campo visivo di ampiezza 30° avremmo una distanza di circa 55 cm, quindi saremmo anche in linea con la regoletta di cui sopra.
Tuttavia, questa regola ha più senso quando viene applicata nella scelta degli schermi (tv o per videoproiezione) e del calcolo della loro distanza di visione, e poco si combina invece con supporti a contenuto misto immagine/testi, dove sono più le discrepanze che le analogie.

Rasterizzare il testo?
Se già convertire un testo piccolo in tracciati vettoriali è un’operazione che presenta qualche criticità, addirittura rasterizzarlo prima del RIP (o del driver di stampa) può diventare seriamente critico.
Ai tempi di Freehand si sentiva spesso dire dagli operatori che rasterizzare tutto l’impaginato a 300 PPI risolveva qualunque problema di conversione Postscript e permetteva quindi di stampare qualsiasi documento. In realtà rasterizzare preventivamente tutto era soltanto l’unico modo disponibile per aggirare gli allora insuperati limiti di esportazione PDF del software, ma naturalmente non c’è bisogno di ripetere quanto sia diverso un testo rasterizzato a 300 PPI rispetto allo stesso testo processato dal RIP con valori anche 8 volte superiori.

Per un ingombro piccolo serve un’immagine grande?
Le immagini con decine di megapixel ormai sono la consuetudine, sia per gli alti livelli raggiunti dai sensori di acquisizione (v. articolo sui sensori in questo speciale), sia per le prestazioni dell’hardware attuale.
Le banche dati di risorse immagine offrono da anni megapixel come se piovessero, quindi non c’è più il problema di non avere abbastanza informazioni per gli usi più comuni (e anche quelli meno comuni).
Una riflessione va puntata nella direzione opposta: cosa succede se ad esempio usassi un’immagine da 100 Mpixel per una stampa su A4 (poco più di 8 Mpixel se la consideriamo a 300PPI)?
Succede che nel file finale dovrò scartare più di 11 informazioni su 12, e l’immagine perderà la capacità di restituirmi dettaglio (pixel) di oltre 10 volte.
Non è sempre indolore sprecare 11 litri di vino per riempire una bottiglia da 1 litro, anzi, per questo esistono diversi algoritmi di interpolazione che cercano di ottimizzare i risultati a seconda dei contenuti, non ultimi quelli basati su Intelligenza Artificiale (che per certi versi riescono anche a rigenerare il vino perduto, praticamente miracoloso).
Infine, soprattutto nei casi limite, è sempre opportuno lavorare bene con le varie tecniche di aumento della nitidezza (sharpening) così da enfatizzare quella percezione dei dettagli e dei volumi tipica del nostro sistema visivo.

T13utto il mondo della comunicazione visiva ruota attorno a dinamiche percettive, se riusciamo a ingannare l’occhio dandogli sensazioni di maggior dettaglio o maggior volume la nostra mente farà il resto, ricostruendo con l’esperienza cognitiva la distanza che separa l’immagine dall’immaginazione.

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