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Caratterizzare e certificare le tinte piatte con il CxF/X-4

Il colore è un fattore fondamentale nella creazione di quasi tutti i prodotti, un controllo efficace è essenziale dunque per raggiungere la qualità del prodotto e l’efficienza dei costi. E il CxF/X permette di eliminare le ambiguità nello scambio dei dati colore.

Uno dei primi requisiti nel packaging e nel brand management è l’accuratezza con cui viene riprodotto il colore. Quando Adobe inizialmente sviluppò il formato PDF, le esigenze di colore non erano così stringenti come quelle attuali, infatti c’era esclusivamente il supporto ai metodi colore CMYK, RGB, LAB e «named color» (colori Pantone). La stampa in quadricromia non fornisce una soluzione ai reali bisogni di accuratezza cromatica, mentre il «named color» è solo un modo per descrivere i colori speciali. Ne consegue che entrambi i metodi colore non sono davvero un modo standardizzato per le esigenze di scambio cieco nella realizzazione degli imballaggi. La scatola, l’etichetta o qualsiasi altro oggetto possono essere stampati su diversi tipi di supporto, tra cui carta, poliestere, substrati metallici, e con differenti tipologie di stampa, spesso abbinate tra loro. Anche i tipi di inchiostro che vengono utilizzati influenzano largamente la riproduzione del colore. Un metodo comune per comunicare le tinte piatte alla stampa è l’utilizzo fisico delle mazzette Pantone, anche se queste sono soggette a variazioni cromatiche nel corso del tempo, dovute all’esposizione alla luce o allo sfregamento meccanico subìto durante il loro utilizzo. È, inoltre, importante capire che la maggior parte dei colori in esse riprodotti, rappresentano semplicemente un risultato visivo di quell’inchiostro su un ipotetico supporto cartaceo.

In commercio esistono diverse mazzette che coprono solo alcuni tipi di carta, tra cui le patinate lucide, le patinate opache o l’usomano, mentre per altri tipi di materiale o in caso di nobilitazioni (plastificazione, vernici, ecc…) il risultato del colore può cambiare notevolmente. Molti brand owner invece utilizzano delle cartelle colore con all’interno dei campioni stampati, per fornire una rappresentazione visiva a tutti coloro che sono coinvolti nel processo produttivo e in alcuni casi anche informazioni sulle condizioni in cui il colore di stampa deve essere confrontato con il campione fornito. Anche in questo caso però, il comportamento in produzione della tinta prodotta è spesso molto problematico da prevedere. Come comunicare allora questi colori speciali in modo che incontrino una designazione standard che supporti tutte queste variabili? Per sopperire a queste criticità ci viene in soccorso il CxF/X-4 (Color Exchange Format), un framework tecnologico basato su XML (sviluppato inizialmente da X-Rite nel 2002) e che ha visto nel corso del tempo numerosi miglioramenti, fino a diventare uno standard internazionale nella norma ISO 17972-4:2018.

CxF/X-4: che cosa è

Si tratta di un formato di interscambio per i dati di misurazione spettrale degli inchiostri e per fornire un mezzo per caratterizzare le tinte piatte. Il CxF/X-4 contiene infatti la curva spettrale del colore per la formulazione dell’inchiostro, la rappresentazione corretta a monitor, la prova colore e la determinazione dell’opacità per sapere come si comporta l’inchiostro a livello di coprenza. Questo è già incluso nativamente nel PDF 2.0 e lo sarà nelle future versioni del PDF/X, all’interno dell’intento di output. Naturalmente questa norma non ha ricadute solo sul packaging, infatti può essere utilizzata a tutti i livelli. Ciò che rende il CxF/X-4 così importante è la capacità di contenere al suo interno anche le informazioni sulla condizione di misurazione, come lo strumento utilizzato con le relative impostazioni, la tipologia di supporto, una preesistente formulazione dell’inchiostro e le specifiche tolleranze che il brand richiede per la riproduzione della tinta. È inoltre possibile includere ulteriori informazioni personalizzate e considerate utili per l’archiviazione o l’interscambio. Il CxF/X-4 come standard ISO non è solo un valido aiuto nel processo di produzione in stampa, ma può essere sfruttato anche in fase di studio del progetto grafico, da una parte dei visualizzatori PDF, dai sistemi di prova colore e dagli strumenti di controllo colorimetrico in linea e fuori linea. Al momento molti fornitori di tecnologie delle arti grafiche non offrono ancora un pieno supporto a questo standard, altri invece stanno sviluppando degli strumenti molto interessanti come vedremo nel seguito di questo articolo.

Figura1. Flusso di lavoro ORIS CxF Toolbox.

Gli strumenti

Per avere un riscontro pratico sulle potenzialità di questo formato, abbiamo provato a caratterizzare e certificare una tinta piatta con ORIS CxF Toolbox, un software sviluppato da CGS www.cgs-oris.com che consente una gestione completa del CxF/X-4 (Figura 1). L’applicazione supporta diversi spettrofotometri della X-Rite in modalità nativa, ma è possibile utilizzare qualsiasi strumento che possa salvare i file in formato CGATS, PQX e QTX. È consentita l’importazione di un PDF/X-4 contenente le definizioni in CxF/X-4, di un file CxF3 o una misurazione spettrale tra quelle sopra elencate. Non è invece consigliabile l’utilizzo di librerie standard digitali, in quanto si andrebbe a perdere la facoltà di definire un colore con la massima precisione. Per intenderci le librerie Pantone non contengono valori comparabili con quelli che si ottengono utilizzando i propri materiali (carta e inchiostro) e la propria macchina da stampa. La prima operazione da compiere è determinare le impostazioni di misurazione nel pannello delle preferenze, da cui è possibile scegliere anche quale formula utilizzare per il calcolo della copertura superficiale del punto (TVI). Nel menu a tendina è già presente la formula SCTV (Spot Color Tone Value) pubblicata lo scorso agosto nella norma ISO 20654:2017, che garantisce una migliore progressione dei toni rispetto alla Murray-Davies e che pertanto risulta più coerente con la percezione visiva (Figura 2).

Figura2. Impostazioni di misurazione nel pannello delle preferenze.

Le misurazioni

Il CxF/X-4 si può ottenere in 3 diverse varianti. Si può partire da un modello base (CxF/X-4b Single Patch) in cui si legge soltanto il pieno della tinta (che è la classica definizione del Pantone che si trova nelle librerie di X-Rite), si passa poi a una caratterizzazione intermedia (CxF/X-4a Single Background) dove si misurano 11 tacche graduate su fondo bianco con progressioni del 10% dal substrato al solido, fino ad arrivare alla caratterizzazione completa (CxF/X-4 Full) dove le 11 tacche si misurano sia su fondo bianco che su fondo nero. Per utilizzarlo correttamente è necessario avere un test chart (Figura 3) da stampare per ogni tinta che si intende misurare.

Figura3. Test chart per le tre varianti di CxF/X-4.

A seconda della tipologia di strumento è possibile scegliere tra lettura a scansione o a tacca singola, con unica o multipla misurazione. Una volta avviata la procedura, il software effettua la lettura delle tacche in modalità spettrale per creare i dati CxF/X-4 (Figura 4).

Figura 4. Lettura delle tacche con lo spettrofotometro.

A questo punto si apre una schermata dove è possibile visualizzare nella parte superiore gli spettri di reflettanza delle 22 tacche sia in modalità singola che aggregata, mentre in quella inferiore bisogna obbligatoriamente inserire i metadati con tutte le informazioni necessarie per sfruttare appieno questo standard. Nella prima sezione vanno inseriti il tipo di supporto, il processo di stampa, la finitura superficiale, il nome della tinta e del supporto, un identificatore numerico per l’inventario, il brand owner e un eventuale contatto di chi ha effettuato le letture. Di seguito vanno indicate le tolleranze e le impostazioni da utilizzare per la certificazione della tinta, tra cui quali delle 11 tacche è necessario misurare, il ΔE massimo, l’indice di metamerismo, l’angolo di misurazione, l’illuminante e l’osservatore standard. Infine vanno definite le modalità di misurazione utilizzate nello strumento, come il metodo (M0, M1, ecc…), la geometria, i filtri e la tipologia di fondo (backing). Ultimata la compilazione dei metadati si procede con il salvataggio di un file CxF/X-4 per ogni definizione di colore, oppure combinando definizioni multiple di colori spot in un unico documento, ottenendo così la carta di identità precisa per ogni tinta, con tutto quello che serve per il confronto dei dati (Figura 5).

Figura 5. Inserimento dei metadati e salvataggio del CxF/X-4.

Infatti, lo standard prevede che il file CxF/X-4 possa includere un solo colore, una libreria o ancora meglio un’intera mazzetta. Oltre a questo è possibile ottenere un report stampabile, contenente un riepilogo generale per ogni tacca della tinta misurata, che è un’opzione aggiuntiva di grande utilità per avere sempre a portata di mano tutti i valori spettrali, colorimetrici e di incremento tonale (Figura 6).

Figura 6. Report con le misurazioni in valori spettrali, colorimetrici e di incremento tonale.

Questa moltitudine di informazioni può essere archiviata e gestita su un proprio spazio cloud, in modo tale che clienti e fornitori possano fruirne secondo criteri di accesso ben definiti. Un esempio pratico potrebbe essere quello di un brand owner, che definisce le tinte piatte in formato CxF/X-4 e le rende disponibili lungo tutta la filiera di lavorazione, mantenendo così in maniera molto semplice e ordinata un database centralizzato dei colori spot.

Progettazione e Pdf

Molti strumenti di progettazione grafica consentono al momento solo l’importazione dei valori L*a*b* del solido contenuti nel CxF/X-4, pertanto a oggi manca a monitor una rappresentazione accurata nei passaggi tonali della tinta e nell’aspetto della sovrastampa. Questa lacuna sarà sicuramente colmata nelle future versione dei software, nel frattempo però è possibile esportare il CxF/X-4 in Adobe Swatch Exchange (Figura 7) e caricare i campioni nella paletta dei colori di Indesign, Illustrator e Photoshop (Adobe Creative Cloud).

 

Figura 7. Esportazione del CxF/X-4 in Adobe Swatch Exchange.

Ciò consente perlomeno di utilizzare dei valori colorimetrici precisi, perché misurati sul reale supporto utilizzato per la stampa, invece che fare affidamento su quelli ipotetici disponibili nelle librerie Pantone. Uno dei grandi vantaggi di questo standard, è l’opportunità di incorporare per ogni colore spot, tutte le informazioni sopra descritte all’interno dello stesso file PDF/X-4 utilizzato per la stampa. Ciò si traduce in un aumento significativo di produttività, in quanto quello che finora doveva necessariamente essere raccolto e inviato fisicamente a ogni anello della catena produttiva, non è più necessario. Poiché tutto è contenuto in un singolo file digitale, una copia dello stesso può essere inviata in giro per il mondo in pochi minuti, contenendo al suo interno tutti i dati necessari per riprodurre accuratamente il lavoro. Il mercato sta sempre più convergendo su tecnologie standard e normate da ISO, che possono includere informazioni o funzionalità aggiuntive all’interno del PDF come unico contenitore universale. A tal proposito è disponibile un’approfondita analisi sul tema, nell’articolo «Il futuro è lo standard» pubblicato ad aprile 2015. L’applicazione consente di aprire un file PDF/X-4 e visualizzare le informazioni relative all’intento di output e all’elenco delle tinte piatte presenti nel documento. Avendo già preparato preventivamente una serie di misurazioni definite in CxF/X-4, è possibile assegnare manualmente o in automatico (attingendo da una propria libraria aziendale) i corrispondenti dati spettrali ed eventualmente cambiare l’ordine di stampa degli inchiostri, per simulare in modo più preciso la prova colore e la resa di stampa (Figura 8).

Figura 8. Assegnazione nel PDF/X-4 dei corrispondenti dati spettrali e ordinamento della successione di stampa degli inchiostri.

Questo aspetto è fondamentale in quanto l’opacità di un colore definisce come esso cambia quando è stampato sopra un altro inchiostro. Un esempio potrebbe essere un colore spot al 70% stampato su uno diverso al 35%. Volendo è consentito intercalare le tinte piatte anche tra i vari colori della quadricromia. A questo punto il PDF/X-4 è pronto per essere distribuito presso l’azienda grafica, che dovrà provvedere alla realizzazione del prodotto stampato. Chi riceve il file ha la possibilità tramite la stessa applicazione di estrarre i dati e di utilizzarli per la formulazione dell’inchiostro (effettuata solitamente utilizzando il CxF3) e per certificare la stampa. Un’altra attività molto interessante è quella di utilizzare la definizione della tinta contenuta nel PDF/X-4 per la conversione del colore in quadricromia o nello spazio colore della periferica di output, come ad esempio la macchina per la prova colore o quella effettiva di stampa.

La certificazione

La fase finale del flusso CxF/X-4 è rappresentato dalla certificazione, per documentare che i colori siano stati stampati correttamente. Si procede prelevando un foglio macchina e lo si misura con lo spettrofotometro, verificando che le tinte siano nella tolleranza indicata nella definizione del CxF/X-4. L’applicazione permette di importare il file fornito o estratto dal PDF/X-4 e propone in automatico di fare le letture delle tacche richieste per il confronto, anch’esse definite nel CxF/X-4. A lato del pannello di certificazione è visibile il totale delle tacche da verificare, le rimanenti ancora da leggere, quelle fallite e quelle completate con successo (Figura 9).

Figura 9. Certificazione della tinta nella tolleranza indicata nel CxF/X-4.

Nel caso il brand owner richieda una tolleranza molto stretta e una notevole precisione anche nella gradazione dei toni, sarà necessaria la misurazione di parecchie tacche, nella maggior parte dei casi però oltre al solido è richiesto solitamente il 50%. È bene quindi verificare prima della stampa, quali percentuali utilizzare nelle scalette da posizionare nelle zone di sfrido del foglio macchina. Terminata la procedura si ottiene un report contenente un riepilogo generale per ogni tacca della tinta misurata, che riporta il risultato della certificazione con tutti i valori spettrali, colorimetrici e metamerici (Figura 10).

Figura 10. Riepilogo che riporta il risultato della certificazione con tutti i valori spettrali, colorimetrici e metamerici.

L’applicazione ha anche la facoltà di esportare i risultati della certificazione in formato PQX (Print Quality eXchange), il nuovo standard (futura norma ISO 20616-2) che intende agevolare la trasmissione dei dati sulla qualità di stampa, per uno o più campioni della stessa tiratura. In questo modo chi gestisce il brand ha la capacità tramite lo stesso software, di importare il report e verificare in tempo reale l’accuratezza con cui si sta riproducendo il colore, mentre lo stampatore ha la facoltà di tracciare digitalmente l’andamento della produzione e archiviare le informazioni per eventuali ristampe.

 

Con quale formato (mi) salvo?

Progettiamo un lavoro, lo finalizziamo, lo salviamo e scatta la fobia di quale formato di salvataggio o esportazione utilizzare. Qual è il migliore? Ma se comprimo che cosa succede?Statisticamente la fobia in realtà forse non è così diffusa perché si usano sempre i soliti due o tre formati. Ma siamo davvero sicuri di fare la scelta migliore? E ne sappiamo il motivo? Di tanto in tanto capita anche di ricevere indicazioni errate, magari in buona fede, a cui seguono contrasti o litigi perché coinvolgono creativi, fornitori ecc…Quindi?

Il flusso nel desktop publishing

In buona parte il flusso di lavoro che si è andato affermando negli ultimi 15 anni è, in questo senso, molto più semplice e lineare di quello precedente. Oggi si riescono a importare direttamente anche diversi formati nativi (o di lavoro), saltando spesso la parte di esportazione specifica, questo soprattutto se lavoriamo con la Creative Suite di Adobe. In ultima battuta infine si esporta in PDF, seguendo dei predefiniti che salvano spesso capra e cavoli, quando addirittura non è il fornitore stesso a fornirci il file job option per azzerare i rischi.

Elenco dei formati di esportazione in Photoshop. Un elenco ancora più lungo si può trovare nel comando Apri, dove vengono mantenuti anche molti altri formati storici ormai desueti (ma non si sa mai).

Formati di lavoro

Fintanto che si lavora sul file, quindi nella quasi totalità del tempo, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che questi siano i formati preferibili. Sono i cosiddetti formati nativi, quelli con cui un applicativo salva e riapre i suoi file di modo da mantenere tutte le caratteristiche operative e i criteri di editabilità specifici, e questo lo fa nel minor tempo possibile compatibilmente alla complessità del file, ottimizzandone la compressione e lo spazio occupato sui dispositivi. Sono formati in costante miglioramento, al pari del software che li genera, pertanto è possibile che col tempo diventino superati dalle loro stesse evoluzioni. Nella quasi totalità dei casi è sempre garantita la retrocompatibilità, di modo che anche a distanza di anni sia possibile aprirli senza limitazioni. Esempi di questi formati sono: PSD (Photoshop), AI (Illustrator), ID (Indesign), QXD (Xpress).

Una piccola, ma doverosa precisazione va fatta in relazione al formato fotografico RAW: qui è improprio parlare di file di lavoro dal momento che nasce come file chiuso a cui viene associato un file XMP dove risiedono le modifiche effettuate dall’utente. È a tutti gli effetti un formato nativo, che contiene tutti i dati grezzi ottenuti in fase di scatto, ed è l’unico caso in cui con l’evoluzione degli algoritmi di calcolo è possibile ottenere immagini sempre migliori a partire dallo stesso file di partenza. In altre parole: un RAW di 15 anni fa aperto con un sw dello stesso periodo genera un’immagine peggiore dello stesso RAW aperto con un sw dei giorni nostri.

Formati di interscambio

Questa categoria è sempre stata molto circoscritta (e ormai inesistente), per lo meno nel suo significato più generico: l’esigenza qui sarebbe quella di salvare in un formato versatile che consenta anche a un applicativo diverso da quello di partenza di mantenere l’editabilità dei vari contenuti. Normalmente il file di lavoro è specifico, per cui, parlando di Photoshop, un eventuale file PSD a livelli (tracciati, canali, ecc…) è improbabile che possa essere aperto con un altro software mantenendo esattamente struttura, opzioni parametriche ecc… anche perché un software diverso avrà inevitabilmente caratteristiche operative diverse, per quanto analoghe. Con il passare degli anni però alcuni sw sono diventati così pesantemente standard di mercato che gli applicativi concorrenti, al posto di basarsi su ipotetici formati di interscambio, hanno preferito considerare direttamente i file proprietari acquistando i moduli di importazione o sviluppandoli internamente con un reverse engineering. Ecco quindi che il file PSD, magari in forma più semplificata, può essere ormai aperto da molti programmi (Anteprima di OSX, Xpress ecc…), anche solo nella sua versione di immagine composita. Un esempio di file di interscambio può essere l’U3D, per l’ambito 3D naturalmente, in controrelazione al 3DS o all’OBJ rispettivamente proprietari di 3D Studio e Maya (comunque di per sé aperti abbastanza agevolmente anche da molte altre applicazioni).

 

Formati di esportazione

Qui entriamo nel nocciolo della questione. Un’esportazione dovrebbe (anzi, deve) essere subordinata a un determinato output, con caratteristiche ben precise in funzione delle esigenze di consegna o di utilizzo. Parlando di file per la stampa con contenuto raster/vettoriale misto la risposta universale sarebbe il PDF, ma i diversi parametri con cui può essere esportato apre un ventaglio di casistiche molto eterogeneo. Parlando di immagini invece possiamo circoscrivere l’esempio ad alcuni formati specifici: TIFF, JPG e, più recentemente, PNG, ognuno con caratteristiche proprie che lo possono rendere preferibile in funzione degli utilizzi.

Le compressioni

Un’associazione errata che spesso ho riscontrato nei vari ambienti grafici è legata al concetto di compressione, unitamente alla perdita di qualità del file. Questo può avere senso parlando di compressioni come il JPG, definita appunto Lossy (con perdita di dati), ma è totalmente errata quando si usano altri sistemi di compressione opzionali come l’LZW o lo ZIP (del Tiff) o l’RLE (del BMP) tanto per citarne un paio. Ho detto «opzionali» perché possono essere (o meno) attivati dall’utente, ma pressoché la totalità dei formati di file esistenti utilizza una propria modalità di compressione dati atta a ottimizzare lo spazio occupato in funzione della quantità di dati contenuti. Generalmente vale la regola che più un file è compresso e più tempo ci vuole per il processo di decompressione, quindi occuperò meno spazio sui dispositivi di salvataggio (HD, SSD, Usb Keys, CD, DVD, BluRay ecc…), ma richiederò più risorse di calcolo all’apertura. Viceversa un file non compresso (o compresso poco) avrà un peso grezzo elevato ma una velocità di apertura massimizzata, ecco perché per un progetto con molte pagine e molte immagini può essere ben preferibile utilizzare immagini non compresse, ma apparentemente molto pesanti, al posto di immagini molto compresse e apparentemente molto leggere. Funziona come la logica dei pacchetti per i corrieri: per l’invio si prepara una scatola con dentro tutti i pezzi messi bene, per l’utilizzo si apre la scatola e si montano i pezzi. Assolvono a due scopi diversi.

Salviamo il JPG

Mentre c’è ben poco da dire riguardo a una compressione LZW o ZIP nei file TIFF (sono Lossless, non fanno danni, fine del discorso), bisogna spendere due parole su quella JPG. Se è vero che da tempo esiste un poco usato JPG2000 dotato di (anche) una modalità di compressione Lossless, il JPG usato correntemente è risaputo che danneggi l’immagine in maniera irreversibile e in maniera progressiva, anche utilizzando la massima qualità (e minima compressione) possibile. Il processo di apertura/salvataggio/chiusura ripetuto più volte porta a un deterioramento dell’immagine come se ne facessimo ogni volta un riassunto, tanto più evidente quanti più sono i passaggi. Photoshop offre 12 livelli di qualità nel salvataggio tradizionale e una scala da 0 a 100% per il Salva per Web/Esporta risorse, oltre a un più generico elenco esplicito di Minima/Bassa/Media/Alta/Massima nelle impostazioni interne al PDF. Di quei 12 livelli non ha mai senso usare oltre il 10 in quanto l’11 ed il 12 erano stati introdotti storicamente dagli sviluppatori (e poi lì dimenticati) a scopo di test, ma di fatto hanno una differenza visiva che rasenta lo 0 al prezzo di un peso che lievita sensibilmente. La scala percentuale invece si basa su algoritmi più recenti e raffinati, ma non sono adatti a immagini grandi, tipicamente dedicate alla stampa, sostanzialmente perché richiedono molte più risorse di sistema e molto più tempo di elaborazione.

Ma il JPG quanto rovina?

A questa domanda generalmente non risponde nessuno, o quasi. La compressione JPG considera una matrice di quantizzazione di 8×8 pixel, entro la quale compie delle approssimazioni legate a una media tra valori di luce e/o valori cromatici, riassumendoli e semplificandoli. Mentre per immagini dedicate al web o al video questi blocchetti di 8×8 possono risultare visibili a fronte di valori di qualità bassi o di reiterati salvataggi, lo stesso non si può dire per le immagini dedicate alla stampa dove sono in gioco molti più pixel. È piuttosto logico pensare che su un’immagine di 800 pixel di lato l’incidenza di questo, passatemi il termine, mosaico di compressione, sia molto più evidente e potenzialmente dannosa, di quanto non possa esserlo su un’immagine da 4000 pixel che poi va stampata (a cui si somma quindi un minimo impastamento dato dal dithering o dal retino di stampa).

Facendo qualche rapido calcolo in termini di solo dettaglio l’immagine da 4000 pixel stampata a 300 ppi (non dpi, mi raccomando) occupa uno spazio di circa 33 cm di lato, all’interno di quest’area una matrice di 8×8 pixel è di circa 0,7 mm, quindi scarsamente risolvibile a una distanza superiore ai 25 cm dall’osservatore. In questi termini demonizzare il JPG sarebbe inutile, oltre che poco logico. A questo dobbiamo aggiungere tuttavia una certa difficoltà nella gestione delle campiture colorate omogenee, come i cieli, dove la compressione JPG tende a generare delle posterizzazioni decisamente poco piacevoli, anche a valori di qualità elevati.

In conclusione

In base alla distanza dell’osservatore dall’elaborato stampato, o dall’eventuale video, e alla tipologia di immagine da salvare, il JPG può andare benissimo o un po’ meno bene: immagini con molti dettagli sottili (alte frequenze) e campiture uniformi come certi cieli possono risentire della compressione, in tutti gli altri casi l’immagine risulta sostanzialmente indistinguibile dall’originale, anche a fattori di zoom elevati e in comparativa simultanea.

La comparativa di una porzione di immagine molto grande (oltre 42 mpixel) con l’originale in alto e la versione compressa a qualità 0 in basso. Entrambe sono state poi ingrandite per rendere più evidenti le differenze sulla rivista stampata. Qui riusciamo a rendere visibile sia l’impastamento del micro dettaglio sia la pastorizzazione dello sfondo.
Una comparativa dove vengono messe a confronto le differenze tra l’originale e la relativa versione salvata in JPG a qualità molto alta (qualità 10, a sinistra) e molto bassa (qualità 0, a destra). Il risultato di sinistra è stato amplificato di oltre 100 volte perché fosse visibile, quello di destra invece solo del doppio e per pure esigenze di stampa su rivista. Senza l’amplificazione dei risultati quella di sinistra sarebbe stata all’occhio totalmente nera (quindi a maggior ragione indistinguibile dall’originale se visualizzata in modalità normale) mentre quella di destra avrebbe delineato buona parte degli artefatti, anche se non in maniera così evidente. L’immagine di destra corrisponde alla comparativa sovrapposta delle foto in immagine 2.

 

 

 

Datemi un metadato e vi solleverò il mondo

Dotarsi di un flusso di lavoro integrato che porta all’automazione nella prestampa e comprende diverse attività che solitamente prevedono l’intervento umano è oggi imprescindibile. A tutto vantaggio della cura del cliente, della qualità e del business.

Il mondo della stampa digitale è stato analizzato in lungo e in largo soprattutto per quanto riguarda la seconda parte del concetto: quella «stampa digitale» di cui abbiamo appreso le tecnologie, le peculiarità tecniche, il posizionamento sul mercato, la nascita di business altrimenti impraticabili come le piccole tirature e l’on demand. Adesso occorre concentrarsi sull’altra parte della barricata: quel mondo che è sempre più digitalizzato, dove governare i dati è diventato di vitale importanza in qualsiasi settore. Per sfruttare nel modo migliore le opportunità di questo mondo occorre comprenderne la logica, che si basa su un concetto semplice, ma potentissimo: il flusso di dati. Ogni volta che premiamo il tasto invio su uno dei nostri dispositivi trasmettiamo informazioni a qualche altro dispositivo che dovrà interpretarle, gestirle e probabilmente inviarle a sua volta.

Questo flusso di informazioni è il meccanismo di fondo di ogni operazione nel mondo digitale. La tecnica che permette il continuo dialogo tra dispositivi è la metadatazione, cioè la marcatura delle informazioni in modo tale che si possa ottenere il dato richiesto condividendo la sintassi del linguaggio che veicola le informazioni. In pratica i metadati non sono altro che un sistema di dati conosciuto e condiviso che permette di gestire altri dati sconosciuti e da condividere. Benché possa sembrare una cosa da informatici, in realtà i metadati sono utilizzati dall’uomo probabilmente da sempre. Basti pensare a quando cerchiamo un prodotto al supermercato. Per essere certi di comprare un Chianti non abbiamo bisogno di aprire tutte le bottiglie e assaggiare il contenuto, andiamo sul sicuro leggendo le etichette (metadati) che riportano il tipo di contenuto (dati) sulla base di un sistema di etichettatura (linguaggio), condiviso e conosciuto da tutti noi (dispositivi).

Il procedimento è esattamente lo stesso anche nel mondo digitale, ed è ben riconoscibile guardando la sintassi di uno dei più popolari linguaggi utilizzati per veicolare le informazioni matadatate: l’XML (Extensible Mark-up Language). Proprio come avviene per i prodotti di un supermercato a ogni informazione viene assegnata un’etichetta.

In questa ottica possiamo davvero aggiornare la celebre frase di Archimede. Se la leva è un concetto base per il mondo fisico perché permette di gestire qualsiasi peso, il metadato lo è per il mondo digitale, perché in grado di gestire e veicolare immensi volumi di informazioni, basti pensare alle indicizzazioni che permettono le ricerche sul web.

I metadati nei flussi di lavoro

In effetti è così che può essere inteso il nostro lavoro quotidiano: dal ricevimento dell’ordine alla sua consegna, passando dall’amministrazione alla prestampa, dal reparto di confezione al reparto logistico, è tutto un susseguirsi di passaggi in cui vengono trasmesse delle informazioni. In questo articolo mi preme focalizzare il punto sul reparto di Prestampa, che più di ogni altro si trova nel mezzo del mare, caricato di informazioni indispensabili al proprio compito, ma nello stesso tempo appesantito da esse nello svolgere le mansioni di prestampa classiche, che sono legate ai file da portare in stampa in tempi sempre più stretti costi quel che costi. Anche la commessa più banale si porta dietro una decina di informazioni da gestire. Poniamo il caso di un semplicissimo ordinativo di 100 biglietti da visita: quantità, tipo di carta, colore, data di consegna, indirizzo, ragione sociale di fatturazione, formato, tipo di stampa, eventuali nobilitazioni, ecc… sono tutte informazioni accessorie rispetto ai file, ma indispensabili per il loro trattamento. Poi arriva il file, che non è altro che un ulteriore insieme di dati da gestire: dalla ricezione all’archiviazione e attribuzione a un cliente e a una commessa, al recupero delle informazioni per il tipo di lavorazione da eseguire, ecc… In seguito ci sono le operazioni tecniche di prestampa vera e propria, dal preflight alla normalizzazione del layout di pagina e dello spazio colore, dalle font alle abbondanze… e chissà, magari, anche una creazione del PDF da formati nativi (succede ancora…). Successivamente occorre eseguire un’imposizione, che varia a seconda della macchina più idonea al prodotto richiesto e alla disponibilità produttiva. È necessario, anche, che molte di queste informazioni passino al reparto di stampa, per far sì che gli operatori compilino i job ticket delle periferiche con i dati corretti per quanto riguarda il tipo di carta, il numero di copie e il tipo di fascicolazioni. E altri tipi di informazioni devono essere passati al reparto confezione per procedere al taglio e alla confezione. Infine, altre informazioni serviranno al reparto logistico e amministrativo.

Tutte queste sequenze evidenziano come il lavoro di prestampa sia composto da operazioni, spesso ripetitive, a volte piccole, che richiedono del tempo e un continuo passaggio di informazioni tra operatori e tra reparti. Un insieme che è da considerarsi come un corpus unico di dati che si deve gestire per decine e decine di volte al giorno almeno, dal momento che «dar da mangiare» a macchine con performance di migliaia di fogli/ora, i cui piani di ammortamento danno ormai per scontato due turni di lavoro, con lavori dalle tirature sempre più corte e i margini di guadagno sempre più asfittici può diventare ansiogeno se non viene affrontato nel modo giusto da chi è adibito al «foraggiamento» delle stesse.

La svolta avviene quando ci si dota di software in grado di gestire in maniera strutturata queste informazioni, garantendo così un flusso di dati (file) e di metadati (informazioni commessa) corretto e tempestivo in ogni reparto e a ogni operatore. La parola chiave è integrazione. Quando si inizia a ragionare sotto questa ottica la gestione delle informazioni dall’essere un problema diventa la risorsa.

La prestampa analogica e la prestampa integrata

Una prestampa analogica, cioè che non gestisce un flusso, compie queste operazioni utilizzando i computer come se fossero delle isole su cui portare ogni volta i file e le informazioni commessa necessarie. Questi dati arrivano nei modi più svariati: via mail, via web o su supporti fisici per quanto riguarda i file e attraverso schede cartacee, informazioni orali, schermate di gestionali da visualizzare per quanto riguarda le informazioni commessa. A volte poi, l’operatore si avvantaggia con delle automazioni fatte di azioni correttive da applicare sui file, azioni che possono essere condivise o meno con i colleghi, o con delle elaborazioni compilate in una hot folder in rete da utilizzare caricandogli e scaricandogli i file a mano. In questo ambiente ogni operatore in pratica opera in maniera individuale, avvalendosi delle proprie competenze e condividendo, a volte sì a volte no, le proprie soluzioni e le proprie procedure tecniche. Di solito, avviene che i lavori più complicati spettino all’operatore più bravo, il quale fa prima a svolgerli che a delegarli, dal momento che formare i colleghi richiede impegno e, soprattutto, tempo. Inoltre, in questa situazione tutto ciò che non è il file diventa una complicazione da gestire, arrivando a volte a essere una «distrazione» che mette a repentaglio la corretta esecuzione dei compiti di prestampa. L’integrazione in questi casi è fatta, per così dire, a mano dagli operatori «ognuno come gli va» (citando Lucio Dalla). Allora perché non far di necessità virtù? Perché non far diventare quelle informazioni i metadati in grado di governare i file? Ed è proprio come opera una prestampa integrata. Dotandosi di una piattaforma software dedicata ecco che si possono progettare flussi di lavoro in cui i file vengono portati sull’interfaccia dell’operatore insieme alle relative informazioni commessa strutturate e complete; preoccupandosi magari anche dell’associazione in automatico dei file alla relativa commessa o preoccupandosi di scaricarli da repository remoti via ftp. La montagna è andata da Maometto per così dire. In questo ambiente l’operatore avrà a disposizione tutti i dati tecnici e gestionali per prendere decisioni e impostare il proprio lavoro. Il sistema eseguirà le operazioni di correzione, color management, imposizione e notifica che l’operatore vorrà eseguire. Ogni opzione impostata dall’operatore o presente nei dati commessa diventerà un metadato che guiderà i file nel prosieguo della produzione. A punto metallico quello che è stato ordinato a punto metallico, a filo refe quello che è stato ordinato a filo refe per intenderci semplificando. Quelle operazioni citate precedentemente verranno svolte velocemente perché veloce potrà essere la decisione, senza contare che alcune di queste verranno eseguite in automatico senza l’intervento dell’operatore. Calcoli come il numero di fogli macchina sulla base della resa, la scelta della macchina più adatta, la verifica della corrispondenza file/commessa, la conversione colore più indicata, la compilazione dei job ticket sulle consolle delle stampanti o la stampa delle etichette di spedizione saranno tutte operazioni da cui gli operatori saranno sollevati. A loro spetterà il compito di governare e pilotare il sistema, controllare la qualità del lavoro e la cura del cliente.

Una nuova funzione: il data-entry

In questa nuova logica integrata l’informazione è un bene prezioso. L’operazione che in gergo si chiama data entry diventa di vitale importanza per tutta l’azienda, perché permette di inserire a sistema tutte le informazioni che servono alla gestione delle commesse. Maggiore sarà la precisione e la completezza dei dati inseriti, maggiore sarà la velocità e l’esattezza delle operazioni eseguite dal sistema stesso e dagli operatori, e minori saranno anche i possibili errori umani di trascrizione o distrazione e gli stop dovuti alla mancanza di informazioni indispensabili.

Una mansione, quella del data-entry, a cui si dà troppa poca importanza, ma che in un mondo digitale si dimostra essere il turbo di un’azienda. Non mi stupirei se il data-entry diventasse una vera e propria professionalità anche nel nostro settore, dal momento che per strutturarlo in maniera ottimale bisogna conoscere tutto il ciclo produttivo dell’azienda e avere competenze trasversali. Una sorta di responsabile di produzione in nuce.

Il nuovo operatore della prestampa

L’operatore analogico svolgeva il proprio compito isolato, mettendo in pratica di volta in volta la propria competenza sui file alla luce dei dati commessa, svolgendo il proprio compito per così dire a mano. L’operatore integrato mette la propria competenza al servizio del flusso di lavoro, passando procedure e metodi alla configurazione del sistema in modo da uniformare per tutto il reparto le procedure e le modalità di intervento sui file. Le informazioni prima erano una variabile spesso impazzita, mai sotto il controllo dell’operatore, che doveva sperare in una loro completezza senza la quale il lavoro sarebbe proceduto a singhiozzo complicando ulteriormente la gestione complessiva del lavoro. Adesso le informazioni sono gestite come un bene prezioso attraverso il data entry, arrivano strutturate e complete direttamente sulla work station, un sistema di log e notifiche permette anche un alto livello di informazione su eventuali disguidi o incompletezze. L’operatore può dedicarsi al proprio lavoro avvalendosi di un sistema che gli mette a disposizione una consolle di controllo che soddisfa esattamente la sua esigenza lavorativa: poter gestire come un corpus unico file e informazioni commessa.

Conclusioni

In linea di massima tutto questo discorso rientra nel piano Industria 4.0, ma è abbastanza disarmante apprendere che il piano all’inizio coinvolgesse solo macchine, ferri, hardware. Ora è stato allargato agli investimenti in software anche se vincolati comunque all’acquisto di hardware. È vero che il piano serve a incentivare gli acquisti, ma è preoccupante che si pensi ancora che i software siano degli optional. D’altronde tutto ciò fa da specchio alla realtà del Paese, dove aziende che spendono centinaia di migliaia di euro in macchinari poi frenano di fronte a qualche migliaia di euro di software, senza capire che saranno proprio quel migliaio di euro di software a fargli fruttare l’investimento di centinaia di migliaia di euro in macchine. Non è sempre così chiaramente, anzi, nel nostro settore questa logica è stata sfruttata molto bene dai grandi portali web to print, che hanno costruito il loro business sui software prima ancora che sulle macchine. Stiamo parlando di realtà industriali incentrate sull’automazione e su una forte standardizzazione dei prodotti, ma è una logica che può portare grandi benefici anche alle piccole e medie aziende di cui è costellato il nostro Paese. Introdurre in azienda un flusso di lavoro che permette di risparmiare e normalizzare i processi aziendali, introducendo delle automazioni lì dove le procedure lo permettono e liberando gli operatori da compiti ripetitivi a tutto vantaggio della cura del cliente e della cura della qualità, non può che giovare al proprio business. Basterebbe calcolare il tempo di ogni operazione citata, moltiplicato per il numero di commesse giornaliere, per vedere i pochi minuti di ogni singola procedura diventare ore. Il calcolo del rendimento del capitale investito da un’azienda per apportare questi miglioramenti gestionali (ROI) parla di centinaia e centinaia di ore all’anno.

Mi piace concludere citando la stampa offset perché se tutto ciò che è stato detto lo si è detto prendendo ad esempio la stampa digitale è stato solo per comodità espositiva. Il discorso vale per tutti i tipi di stampa. Cambia solo l’output in un flusso che invece di compilare un job ticket di una stampante digitale definirà, ad esempio nell’offset, l’apertura dei calamai sulla base delle coperture di stampa calcolate da un Rip. Il motivo è semplice: fanno tutte parte del mondo della stampa nell’era digitale.

A Mca Digital è andato l’Hp Best Overall Performance Award

Unico rivenditore in Italia a commercializzare la gamma completa di soluzioni di stampa Graphics di HP, forte di un know how per la tecnologia Latex di cui vanta numerose installazioni in tutta la Penisola, MCA Digital è stata insignita del prestigioso riconoscimento Hp Best Overall Performance per l’area Emea.

«Per assegnare questo premio abbiamo valutato i nostri partner considerandone le performance complessive, analizzando la crescita e lo sviluppo del business, le infrastrutture dedicate al servizio, le modalità di gestione dell’operatività», ha spiegato Nuno Martins, HP strategic channel partners service manager. «MCA Digital si è distinta a livello Emea per il lavoro eccellente svolto a tutti i livelli, conseguendo la qualifica di Premium Partner HP. L’Award suggella i successi messi a segno fino ad oggi e sarà sicuramente di stimolo per un team così motivato nel continuare a fare sempre meglio».

Un traguardo raggiunto grazie a un inteso lavoro di squadra e alla passione che il team MCA Digital mette in campo quotidianamente. Sicuramente un motivo d’orgoglio per Cristina Del Guasta, socio fondatore dell’azienda, che ha trasferito la sua volontà di operare fuori dall’ordinario con una lungimiranza imprenditoriale degna di nota. Non solo hardware, ma consulenza specializzata, servizio evoluto, competenza, voglia di sviluppare il business facendo networking e creando sinergia con e tra i clienti.

«Questo premio è per noi un ulteriore stimolo per continuare ad operare sulla strada tracciata – commenta Cristina Del Guasta. Essere qualificati da un brand prestigioso come HP come un partner d’eccellenza in grado di fornire soluzioni ad alto contenuto tecnologico e consulenza specializzata avvalora la strategia perseguita e ci motiva ancora di più per le sfide future». E le conferme arrivano anche dal mercato, che dimostra di apprezzare l’approccio di MCA, soprattutto a fronte dei nuovi scenari che si stanno delineando grazie alle opportunità offerte dall’Industry 4.0. Un’occasione che per molti operatori può rappresentare una vera svolta e che sarà il focus del Training Esperienziale del centro stampa 4.0 che MCA guiderà, insieme ad HP, durante la tre giorni a Campodarsego (18, 19, 20 aprile 2018). In occasione del Training verrà presentata in anteprima assoluta la nuova soluzione firmata MCA Digital per l’Industry 4.0 che comprende un attestato di conformità e un’app per attivare l’interconnessione tra le attrezzature HP e la catena di fornitura.

Cartotecnica Favini sponsor della Gara Nazionale di Grafica

Favini annuncia la sponsorizzazione, con la divisione Cartotecnica, della Gara Nazionale di Grafica, in programma presso la sede dell’I.S.I.S.S. C. Rosselli di Castelfranco Veneto (TV), il 12, 13 e 14 aprile 2018.

Il concorso è rivolto agli alunni delle scuole secondarie di secondo grado a indirizzo Grafico di tutto il territorio nazionale, del quarto anno di corso degli istituti Professionali con opzione pubblicitario. L’iniziativa ha lo scopo di valorizzare gli indirizzi di grafica dell’Istruzione Secondaria Superiore.

Cartotecnica Favini ha scelto di sponsorizzare l’importante evento, regalando a ogni partecipante un notebook realizzato in carta ecologica Crush, prodotta con residui di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa da albero. Inoltre, ai tre vincitori, verrà donata una fornitura di prodotti, che comprenderà anche i blocchi Schizza e Strappa in vari formati e i blocchi da disegno Favini 4 e Acquerello.

La gara si inserisce all’interno delle iniziative proposte da GRAnDE (dall’unione di GRA-phic and DE-sign), un festival dedicato al Graphic Design, che si terrà a Castelfranco Veneto dal 13 al 15 aprile 2018 a ingresso libero. La manifestazione si svilupperà in tre giorni di workshop e talks, tenuti da professionisti del GRAphic DEsign, incontri, esposizioni e mostre, che resteranno aperte per un mese dall’inaugurazione. Il Festival GRAnDE include anche il concorso nazionale Manifesto della Sostenibilità per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado ad indirizzo grafico, oltre ai contest Il piatto sostenibile e salutare, indirizzato agli studenti locali di grafica, e Premio GRAnDe alla sua prima edizione, aperto a professionisti e designer della comunicazione visiva e del graphic design.

«Raccogliamo sempre con piacere l’invito a sostenere iniziative che mettono al primo piano l’ambiente. Questo progetto in particolare ci ha positivamente colpito: gli studenti, che sono solitamente oggetto di educazione, sono invece stati chiamati a elaborare un progetto e ad essere portavoce in prima persona di un’etica più rispettosa ed attenta alla sostenibilità. Il nostro impegno va oltre la produzione di prodotti scuola e ufficio: come azienda, siamo sempre alla ricerca di soluzioni innovative, che ci consentano di ridurre l’impatto ambientale della nostra attività, in un’ottica di risparmio energetico e di upcycling» dichiara Andrea Bertoncello, direttore generale di Cartotecnica Favini.

 

A Labanti & Nanni la certificazione ambientale Eco-print

Svolgere attività di grafica industriale e cartotecnica riducendo al minimo il proprio impatto sull’ambiente è possibile. Lo testimonia l’azienda bolognese Labanti & Nanni, una delle prime realtà del settore in Italia a conseguire la certificazione Eco-print e a poter così offrire ai propri clienti la garanzia di un intero processo di stampa industriale rispettoso dell’ambiente al maggior livello possibile, secondo uno standard chiaro e verificabile.

La certificazione Eco-print è la prima nel settore della stampa in Europa a tenere in considerazione l’intero ciclo produttivo della stampa, partendo dalle materie prime utilizzate, come carta e inchiostri, passando per le fasi di stampa vera e propria fino alle finiture, all’imballaggio e al trasporto del prodotto finito. Prerequisito per raggiungere la soglia di performance ambientale prevista dalla certificazione è il rispetto di tutti gli obblighi e divieti dettati dalla normativa locale, nazionale ed europea, sulle emissioni in atmosfera, sugli scarichi idrici, sulla gestione delle sostanze pericolose e sulla gestione dei rifiuti. Labanti & Nanni, oltre a queste condizioni basilari, ha centrato con il proprio sito produttivo numerosi obiettivi di politica verde che consentono di ottenere la certificazione aziendale. Innanzitutto l’azienda possiede una propria politica ambientale con obiettivi quantificabili di miglioramento e ha un piano per il monitoraggio dei consumi e delle proprie emissioni. Effettua la raccolta differenziata nel proprio stabilimento, utilizza procedure per ridurre gli sprechi e gli scarti di produzione.

È poi grazie al rispetto dei parametri necessari per poter realizzare prodotti etichettati con il marchio certificato Eco-print che Labanti & Nanni riesce a contraddistinguersi nel panorama della stampa industriale e cartotecnica italiana e a entrare nel numero di aziende che possono offrire ai propri clienti il valore aggiunto di un prodotto sostenibile dal punto di vista del rispetto dell’ambiente. La storica azienda bolognese utilizza carta e cartone certificati FSC, PEFC ed Ecolabel; per il processo di stampa tradizionale si serve di lastre che non utilizzano sviluppi chimici e utilizza inchiostri a base vegetale.

La certificazione Eco-print viene rilasciata per cinque anni da Vireo, ente di certificazione esterno indipendente che ha partecipato alla stesura dello standard ed è preposto alle visite ispettive di verifica dei requisiti di certificazione, che si effettuano ogni anno.

«Il conseguimento della certificazione Eco-print è il frutto di un percorso che abbiamo intrapreso con convinzione da diverso tempo e che va di pari passo con il continuo miglioramento della qualità della nostra produzione e del nostro essere azienda – spiega il presidente di Labanti & Nanni, ingegnere Antonio Bonacini -. Crescere in sostenibilità non fa bene solo all’ambiente, ma è anche un processo che ci impegna costantemente e ci permette di essere più efficienti, attenti, responsabili, anche nei confronti di ciò che chiedono il mercato e i nostri clienti. Con il marchio di prodotto certificato vogliamo offrire perciò qualcosa di speciale, un livello di eccellenza che i nostri clienti più esigenti possono far valere a loro volta con i loro clienti».

Da Sappi nuova soluzione per imballaggi cartacei

Da Sappi in arrivo un innovativo prodotto in carta per imballaggi flessibili con qualità sigillanti migliorate per una maggiore sostenibilità e rispetto dell’ambiente.

Nel 2016 Sappi è stata la prima azienda a presentare una carta per imballaggi innovativa con qualità termo saldanti integrate. Questa soluzione per imballaggi innovativa e sostenibile ha sollevato interesse sul mercato ed è stata in seguito sviluppata e distribuita a livello mondiale. Con Sappi Seal viene lanciata ora sul mercato la seconda generazione di soluzioni per imballaggi flessibili con qualità sigillanti migliorate e anche riciclabili. Questa soluzione dovrebbe sostituire i laminati termosaldati in plastica con materiali contenenti una percentuale superiore di materie prime rinnovabili. La carta Sappi Seal, monopatinata bianca in fibra vergine, è dotata di uno strato a dispersione sul retro che garantisce buoni risultati durante la termosaldatura.

«Sia il brand owner sia l’utilizzatore sono alla ricerca di materiali per imballaggio alternativi alla plastica. Sappi Seal dovrebbe contribuire all’impiego di materiali per imballaggi flessibili rinnovabili e più efficienti dal punto di vista di impiego delle risorse» afferma René Köhler, head of business development packaging and specialty papers di Sappi. Sappi Seal è stato sviluppato per l’impiego con imballaggi flessibili standard nei settori alimentare e non-food, in cui sono richieste qualità di termosaldatura. Questi comprendono sia imballaggi primari come sacchetti sia imballaggi secondari come flowpack per dolciumi, giochi per bambini oppure attrezzature per il fai da te. Oltre alla capacità termosigillante, Sappi Seal assicura una barriera contro l’umidità per la protezione dal vapore. Inoltre, la nuova carta speciale può essere riciclata come carta.

Durante il suo sviluppo, Sappi ha prestato particolare attenzione alla semplicità d’uso. Perciò Sappi Seal può essere aperta con movimenti morbidi, senza strappi incontrollati. Grazie alla superficie omogenea e brillante offre una buona stampabilità e può essere lavorata con tutte le tecniche disponibili.

Pixartprinting incontra gli stampatori europei

Pixartprinting per la prima volta sarà presente con un’area espositiva a Fespa (Berlino, 15-18 maggio 2018). «Il rapporto privilegiato con le case produttrici costruito in 25 anni di attività ci offre vantaggi competitivi in termini tecnologici, con la possibilità di testare in anteprima le nuove soluzioni o di mettere a punto features esclusive su nostra richiesta», spiega Alessio Piazzetta, chief manufacturing officer di Pixartprinting. «La nostra partecipazione a Fespa è un forte messaggio per gli stampatori e i printing services provider europei. In fiera avremo modo di incontrali personalmente dopo anni di soddisfacente collaborazione. La kermesse internazionale, inoltre, sarà anche l’occasione per presentarci a chi ancora non è nostro partner, illustrando i numerosi vantaggi della nostra formula».

I continui investimenti nelle più avanzate tecnologie di stampa e finitura permettono a Pixartprinting di proporsi agli stampatori come partner produttivo, non solo per il grande formato. La crescita costante dell’azienda veneziana, infatti, è andata di pari passo con il continuo ampliamento del catalogo, che ad oggi conta oltre 3.000.000 di combinazioni possibili e 50 nuovi prodotti introdotti ogni anno. «Al nostro stand esporremo una selezione di applicazioni partendo ovviamente dalla stampa grande formato su tessuti sintetici, pvc, vinile e materiali rigidi come alluminio, Forex, Plexiglas . Non mancherà un assaggio di tutte le altre nostre specialità, che spaziano dal piccolo formato, passando per il packaging anche nobilitato, fino al merchandising presentato di recente», racconta Federico Gonzalez, marketing & sales director Pixartprinting.

Attualmente Pixartprinting gestisce oltre 10.000 lavorazioni al giorno, contraddistinte da qualità di stampa e prezzi competitivi. Dal singolo pezzo ai grandi volumi, dallo small al wide format, oggi realizzato con sistemi quali la roll-to-roll Durst Rhotex 322, le stampanti eco-friendly HP Latex 3000, le flatbed industriali Durst Rho 1312, di cui vanta la più gande installazione italiana.

Le leve di Favini per la sostenibilità: ricerca e innovazione

Favini ha avviato una collaborazione con l’Istituto di scienze e tecnologie molecolari del CNR, l’Università di Milano, Eurac Research e il produttore di cosmetici Intercos, per un progetto di ricerca integrata sulle biotecnologie industriali e sulla bioeconomia e, in particolare, sul possibile riutilizzo dello scarto industriale della tostatura del caffè per la produzione di carta. Le attività si svolgono all’interno del progetto CirCo (Circular Coffee), finanziato da Fondazione Cariplo e Innovhub SSI.

In particolare, dal 2012, il reparto R&D Favini realizza Crush una gamma di carte ecologiche che riusa creativamente (upcycling) i residui agro industriali della lavorazione di agrumi, uva, ciliegie, lavanda, mais, olive, kiwi, nocciole e mandorle in sostituzione parziale della cellulosa. Il mercato del caffè è uno dei più fiorenti a livello mondiale e il suo consumo annuo è pari a circa 10 milioni di tonnellate (dati 2015). Solo in Italia, se ne consumano 3,4 kg a testa in un anno, un dato che fa del nostro Paese il quarto importatore a livello mondiale. La lavorazione del caffè prevede diverse fasi e genera differenti tipologie e una notevole quantità di scarti, dal pericarpo al pergamino, dalla pellicola argentea (silverskin) ai residui d’estrazione. La presenza di questi materiali residui rappresenta per i produttori un problema, mentre per l’economia e per l’ambiente un’opportunità non colta. Si tratta, in alcuni casi, di materiali che potrebbero essere usati per differenti scopi ma che, spesso, vengono semplicemente smaltiti, con costi elevati, sia economici che ambientali.

Uno scarto della lavorazione italiana del caffè è la pellicola argentea (coffee silverskin) che rappresenta fino al 2 per cento del peso totale del chicco di caffè e, solo in Italia, se ne producono 7500 tonnellate all’anno. Ad oggi, viene utilizzata in alcuni Paesi solo come fertilizzante o come combustibile.

Favini, insieme agli altri importanti partner, grazie a questa ricerca intende approfondire ulteriormente il proprio know-how in materia di riutilizzo di sotto-prodotti e in particolare del silverskin. La contaminazioni di idee tra enti, oltre ad aziende di settori diversi, come Intercos, che sviluppa e produce prodotti cosmetici, può aiutare a rendere l’economia sempre più circolare, migliorare i processi produttivi e il grado di sostenibilità ambientale. Puntando sulla riconversione dei processi da convenzionali a circolari, è possibile attuare infatti un cambiamento importante, in grado di ottimizzare l’utilizzo delle risorse naturali rinnovabili e di valorizzare gli scarti di produzione.

«Con la partecipazione a questo progetto di ricerca, mettiamo a disposizione la nostra expertise nel campo e intendiamo aprirci a una proficua contaminazione di idee. Già da anni utilizziamo i sottoprodotti della lavorazione della filiera del food per produrre carta. Con Crush, siamo arrivati infatti a sostituire fino al 15% di cellulosa vergine con residui agro-industriali, preservando al contempo la qualità del prodotto, riducendone l’impronta ecologica. Oggi, siamo ancora allo studio per migliorare ulteriormente il processo produttivo, con l’auspicio che il nostro modello sia replicato anche in altre industrie» dichiara Eugenio Eger, amministratore delegato di Favini.

 

Annunciate le aziende in nomination agli FTA Europe Diamond Awards

La giuria di FTA Europe incaricata di selezionare i lavori migliori tra i vincitori dei premi nazionali alla qualità di stampa flessografica si è riunita a Bruxelles il 26 e 27 marzo scorso.

Sono sette le aziende italiane selezionate tra le vincitrici delle edizioni 2016 e 2017 del Bestinflexo, premio alla qualità di stampa promosso da Atif.

Ecco la shortlist delle aziende che saranno premiate in occasione degli FTA Europe Diamond Awards 2018:

  • Amcor Cumbria
  • Bastin-Pack N.V.
  • Cartotecnica Postumia
  • Chespa
  • CJSC Uniflex
  • DS Smith Belper
  • DS Smith Burscough
  • DS Smith Livingston
  • DS Smith Packaging Deutschland
  • DS Smith Packaging Velin
  • Flexográfica Del Mediterráneo S.L.
  • Gamma Pack
  • Graphicas Varias
  • Grupo Consist
  • A. Hatzopoulos
  • Idea
  • Industrial Bolsera, S.L.
  • Ipi
  • LC Packaging
  • Lysipack
  • MCC Scotland
  • Multi-Color Italia
  • Nextlabel
  • Packaging Technologies Inc.
  • Plasc
  • Prakolar
  • Reflex Newcastle
  • Roberts Mart & Co Ltd
  • Sac Emballages
  • Saicaflex (Bolfar)
  • Scatolifico TS
  • Sleever International
  • Smurfit Kappa Burgos
  • Smurfit Kappa CRP Pre Print
  • Tech It Packaging
  • Viallon Emballage
  • Wipak Iberica

La cerimonia di premiazione organizzata da FTA Europe per celebrare il meglio della stampa flessografica a livello europeo si svolgerà a Milano il 30 maggio prossimo all’Hotel Barcelò. Durante la serata saranno premiati i lavori di 14 categorie e sarà proclamato il Best in Show europeo. Cresce anche l’interesse degli operatori nei confronti dell’evento con Winmöller & Hölscher che si aggiunge al gruppo di aziende cha hanno già confermato il proprio sostegno ossia Uteco (Diamond Sponsor), Camis, Grafikontrol , I&C-Gama, Kodak, Lohmann, Sun Chemical, Vetaphone (Gold Sponsor), Comexi e Siegwerk (Silver Sponsor). Sono ancora disponibili alcuni limitati pacchetti di sponsorizzazione e singoli ticket per la partecipazione alla serata. è possibile registrarsi entro e non oltre l’11 maggio.

Ulteriori informazioni possono essere richieste a FTA EUROPE info@fta-europe.eu o reperite su http://www.fta-europe.eu/fta-europe-awards/2018-awards/.