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Preparare le immagini per la stampa in grande formato

Nonostante si stampi da decine di anni su dimensioni notevoli (come il billboard da 6×3) e le fotocamere di fascia intermedia abbiano ormai ampia disponibilità di megapixel, persiste stranamente una sorta di aura nebulosa su come si prepari un’immagine “grande”. Se fate una ricerca sul web con “stampa grande formato risoluzione” troverete molteplici ricette e/o indicazioni più o meno approssimative su quanta risoluzione serva, in qualche caso troverete anche delle tabelle e dei calcolatori online che suggeriscono quanto grande potete stampare un’immagine in funzione dei suoi pixel, oltre a ricette fantasiose sugli ingrandimenti “un po’ alla volta, non in un unico passaggio”.

Nei risultati delle prime 10 pagine di Google ho trovato alcune indicazioni condivisibili, generalmente non motivate, con indicazioni numeriche parzialmente divergenti e, talvolta, contrastanti.

Chi è tenuto a sapere il corretto modus operandi?

Per quanto le figure coinvolte in un processo grafico abbiano competenze trasversali e spesso sovrapponibili la risposta a questa domanda è una sola: il grafico. Non il fotografo, non lo stampatore, quindi inutile rimbalzarsi le responsabilità.

  1. Il fotografo

Il fotografo scatta, fornisce immagini tipicamente digitali con una certa quantità di pixel, oltre che con una certa “qualità” in base all’attrezzatura utilizzata (di certo in questa sede non rischiamo di confondere ottiche professionali con quelle dei cellulari, anche se i megapixel dovessero essere numericamente uguali).

Dopo un breve confronto con il grafico, nome generico per definire qui chi si deve occupare del trattamento dell’immagine prima della messa in stampa, si dovrà stabilire se l’attrezzatura di partenza sarà sufficiente o si dovrà noleggiare qualcosa di più performante (e quindi più costoso). A quel punto il suo unico compito è scattare al suo meglio con quello che ha, che utilizzi stack di scatti in multifocale, o super risoluzione, o obiettivi fissi anziché zoom ecc… non è interessante in questa sede.

Da quando molti fotografi hanno acquisito esperienza nella stampa fine-art non è raro incontrare professionisti molto competenti nella gestione della risoluzione e dei diversi supporti di stampa, ma tendo a considerarlo un piacevole valore aggiunto piuttosto che un argomento proprio della loro professione di base.

  1. Il grafico

Il grafico deve sapere cosa ha chiesto al fotografo: se la richiesta riguarda materiale utile per stampe di 10 metri di larghezza da mettere in un supermercato a 3 metri di altezza deve essere in grado di chiedere il giusto numero di megapixel, per non trovarsi poi con troppe (in questo caso quasi mai) o troppo poche informazioni (cioè pixel) al momento dell’esportazione. Chiedere poi uno scatto ad alta definizione, o ad alta risoluzione, di per sé non significa nulla, senza correlazione tra dimensioni fisiche e risoluzione è una richiesta inconsistente.

Gli algoritmi di interpolazione possono giocare un ruolo chiave per fornire ulteriore dettaglio fittizio, ma plausibile, così come diventano fondamentali un uso consapevole delle tecniche di aumento della nitidezza e di rimozione/aggiunta del disturbo.

Consideriamo anche che il fotografo può essere sostituito dai vari siti che vendono immagini, e al momento dell’acquisto le dimensioni in pixel delle immagini fanno la differenza tra qualcosa di adatto, di sovrabbondante (e magari più costoso) oppure di troppo piccolo.

  1. Lo stampatore

Una volta concordati i supporti e la qualità di riproduzione, generalmente alta ormai ovunque con valori intorno ai 1200 DPI anche su supporti telati, l’immagine viene stampata. Naturalmente il tipo di supporto e la tecnologia usati possono condizionare sensibilmente la definizione finale: un telo traforato per l’impalcatura di un restauro è molto distante da una carta fotografica, ma in linea di massima se l’immagine di partenza è ben costruita e “adatta” nessuno avrà da ridire.

Lo stampatore generalmente suggerisce un valore generico di risoluzione di output, giusto per dare un’indicazione di massima per andare “sul sicuro”, ma non avendo alcune informazioni come quelle che stiamo per analizzare sono valori indicativi molto generici. Del resto chi stampa non è tenuto ad avere interesse in cosa viene stampato, deve solo farlo al meglio in base a ciò che riceve.

Cosa significa “adatta”?

Se usassimo la famosa risoluzione di 300 PPI (non DPI) per una stampa di 10 metri avremmo già una base di oltre 110.000 pixel, tanto per capirci il “vecchio” formato PSD è limitato a 30.000 x 30.000 pixel. Nessuno si lamenterebbe della qualità finale naturalmente, ma avremmo un file pesantissimo che richiede tempi di elaborazione lunghi, con conseguente aumento di costi ed altri problemi a cascata.

Il processo per creare l’immagine “adatta” è sintetizzabile quindi nelle righe seguenti:

  1. Da che distanza si dovrà vedere la stampa?

Questa è la prima e fondamentale domanda da cui tutto dipende, l’abbiamo trattata qualche anno fa, nel numero di giugno 2017, per cui non tornerò sui motivi fisiologici e percettivi per spiegare i calcoli che seguono, mi limiterò a utilizzarli per arrivare al risultato ottimale.

Se l’osservatore si trova a 1 metro dalla stampa la risoluzione di riferimento è intorno agli 80 PPI (a mezzo metro è 160, poco sopra ai 25 cm arriviamo ai ben noti 300 PPI), il valore può essere aumentato se sono presenti molti dettagli sottili, così come può essere anche inferiore se c’è ampia prevalenza di basse frequenze (tipo un panorama a campo lungo). Nonostante questo valore tenga conto del potere risolvente dell’occhio umano medio si può considerare anche che ad una risoluzione superiore aumenti il dettaglio percepito (anche se non viene risolto).

Sul pregevole Printhandbook di Andy Brown si propongono risoluzioni soglia di addirittura 50 ppi per i billboard da 6 metri per 3, e per quanto abbia apprezzato la qualità del manabile trovo questo valore un po’ eccessivo di un buon 30% (per anni si è usato il criterio della scala 1:10 a 300 ppi con successiva proiezione in fase di stampa, alla fine risultava una risoluzione di 30 ppi a dimensione reale, e nessuno si è mai lamentato).

  1. Cosa è rappresentato nella stampa?

Il soggetto rappresentato è un fattore sensibile, immaginiamo di avere un close up di un fiore: si tratta di un soggetto che l’occhio osserva naturalmente da vicino, il dettaglio viene inconsciamente cercato visto che la nostra esperienza passata è ricca di situazioni in cui abbiamo raccolto informazioni di dettaglio di un soggetto simile. Più il soggetto ripreso è piccolo nella realtà e maggiore sarà la propensione all’aspettativa di dettaglio.

Al contrario un panorama, per quanto anch’esso non privo di microdettaglio, lo si osserva da distante con il sistema visivo rilassato, quindi la ricerca del dettaglio diventa secondaria.

In base a questi esempi si potrà prediligere un’immagine di partenza con più megapixel, se possibile, oppure un trattamento di sharpening (aumento della nitidezza) adatto e localizzato.

  1. Come sono i contrasti? Ci sono simboli grafici noti?

È una logica prosecuzione del punto precedente. Se i microdettagli sono molto contrastati (ad esempio ciocche di capelli neri su fondo bianco) la percezione di eventuali seghettature sarà molto probabile, al contrario nessuno ci farà caso se i valori tonali sono piuttosto vicini.

Anche la presenza di testi attiva un processo di codifica visiva diverso, per questo un testo nero su fondo bianco con contorni seghettati disturba di più di una corteccia d’albero con lo stesso artefatto (ma generalmente i testi sono trattati come vettori quindi il problema non si dovrebbe porre).

Superfluo ma utile ribadire che la percezione del dettaglio è quasi interamente veicolata dai chiaroscuri, la componente cromatica è trascurabile.

  1. Su quale supporto?

Cercare il dettaglio del pelo nell’uovo su una tela traforata da impalcatura suona quantomeno poco sensato, risoluzioni di 15 PPI si sono confermate efficaci e snelle, e pensate che il pixel in questo caso risulta poco più piccolo di 2 mm…

Ad ogni modo l’ottimizzazione dello sharpening passa anche per questo aspetto, e rispetto alle dimensioni di stampa medio-piccole il raggio delle maschere di contrasto sale notevolmente.

  1. Disturbo? No, anzi, prego

Una volta ingrandita e ottimizzata l’immagine è consigliabile applicarci una patina di disturbo controllato che confonda alcuni artefatti e dia la sensazione di maggior dettaglio ed omogeneità. Mentre gli artefatti di interpolazione vengono facilmente percepiti come artificiali il disturbo stile “grana pellicola” è percettivamente ben tollerato, e quando applicato sull’immagine già grande il risultato è notevole. 

Casi limite

In quei casi in cui la stampa di grandi dimensioni preveda distanza di visualizzazioni analoghe ad una rivista, ad esempio una piantina di un parco divertimenti, oppure riproduzioni d’arte come un’Ultima cena di Leonardo, dove il dettaglio della singola giostra o della singola pennellata è pressoché obbligatorio, non ci sono molte scappatoie: servono risoluzioni elevate (quindi anche 250/300 PPI) a dimensioni reali. Per un formato standard industriale da 3×2 m arriviamo a quasi 800 megapixel per la situazione ottimale, si può fare? Si, certo. Serve sempre? Naturalmente no.

Questo dettaglio è proposto in 4 risoluzioni diverse, da sinistra a destra rispettivamente: 300, 200, 100 e 50 ppi. Nella seconda riga ogni immagine è stata interpolata e riportata alla risoluzione di 300 ppi, generando quindi pixel fittizi comunque più piccoli di quelli in prima riga.

La visione consigliata per la prima colonna è poco meno di 30 cm, per la seconda circa 40 cm, per la terza circa 80 cm, per la quarta circa 1,6 metri. Le considerazioni da fare riguardano sia quanto può essere soddisfacente la versione con il corretto rapporto risoluzione/distanza, sia quanto non siano più distinguibili i dettagli della prima e della seconda immagine via via ci si allontana.

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