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Scambio elettronico di ordini: ecco come ottimizzare il flusso

Il miglioramento delle performance degli etichettifici passa anche dalla condivisione d’informazioni tecniche, logistiche ed economiche con fornitori e clienti. Quando, quanto, cosa e come condividere.

Internazionalizzazione, innovazione, informatizzazione sono le tre «I» che hanno cambiato i rapporti tra etichettifici, clienti e fornitori. L’aspetto più rilevante è la crescente condivisione d’informazioni tese a ottimizzare innovazione, produzione, logistica. Da sempre le aziende impiegano i dati come volani per il miglioramento interno, ora l’attenzione si è spostata sulla filiera e il potenziamento passa dal mettere in comune informazioni pubbliche o strettamente riservate. I sistemi EDI (Electronic Data Interchange) sono stati in parte sostituiti da internet, dalla rete Gdsn (Global Data Synchronisation Network) e in modo crescete dal cloud. Gli EDI consentono lo scambio di documenti normalizzati tra sistemi informativi ed ERP (Enterprise Resource Planning) di diverse aziende.
La normalizzazione, ossia l’uso di un linguaggio che funge da interfaccia tra sistemi informativi diversi, permette lo scambio elettronico di ordini, documenti di trasporto, fatture, inventari e così via.

La rete Gdsn

Anche la rete Gdsn è un sistema di integrazione end-to-end, ma a differenza dell’EDI si avvale del Web: premette alle aziende di avere un unico punto di accesso alle informazioni di prodotto, i dati sono sempre aggiornati e si sincronizzano dopo ogni modifica. Il sistema è formato da una rete di archivi di dati e dal Global Registry. Quest’ultimo permette lo scambio di dati standard tra partner commerciali aderenti al sistema, assicurando che i dati condivisi siano unici e conformi alle regole mondiali.
I prodotti (Trade Item) sono identificati tramite un codice GS1 detto Gtin (Global Trade Item Number) mentre le aziende e i luoghi fisici sono identificati da un GLN (Global Location Number).
La combinazione di Gtin, GLN e Target Market (l’area geografica dove vale una particolare anagrafica) permette di condividere le informazioni sul prodotto garantendone l’unicità nella rete. Le informazioni di prodotto sono aggiornate in modo coerente tra i partner commerciali; i dati sono convalidati dagli standard che ne garantiscono l’accuratezza; l’unicità degli item è garantita dal Global Registry che identifica univocamente ogni unità pubblicata e le informazioni necessarie per il suo reperimento.

Tutti i perché sì del cloud

La “nuvola” è una trasformazione epocale che sta progressivamente estendendosi all’intera informatica: sta infatti cambiando il modo di programmare, gestire le infrastrutture internet, usare le applicazioni e progettare questi servizi. In passato i software si acquistavano, scaricavano e installavamo, ora si utilizzano direttamente sul Web previo abbonamento; le piattaforme di sviluppo software si installavano su un server, oggi si “affittano” per il tempo strettamente necessario; lo stesso accade per le infrastrutture complete (server, storage, database). I servizi cloud coprono tre grandi ambiti: SaaS (Software as a Service), PaaS (Platform as a Service), IaaS (Infrastructure as a Service).

Negli SaaS i software sono erogati come servizi, si pensi ai programmi fruibili attraverso la piattaforma Google Apps; gli PaaS trattano i servizi per sviluppare, testare e distribuire un’applicazione per esempio la Cloud Platform di Google; gli IaaS erogano l’intera infrastruttura IT (processori, storage, servizi di rete) per esempio gli Amazon Web Services.

Il cloud è privato quando l’infrastruttura e la piattaforma appartengono a una unica azienda che eroga servizi solo alle proprie consociate e unità produttive; è pubblico quando i servizi sono erogati via internet da un service provider a diversi clienti. Ci sono anche soluzioni miste, tra queste community cloud con servizi erogati da un’azienda o un service provider a un gruppo ristretto di organizzazioni che condividono alcune caratteristiche per esempio livelli di sicurezza, norme legali, obiettivi, l’infrastruttura può essere gestita da una delle aziende del gruppo o da un provider esterno. Nel cloud ibrido i servizi sono costruiti su infrastrutture che utilizzano la modalità privata per alcuni aspetti (per esempio la conservazione dei dati) e la modalità pubblica per altri (per esempio le interfacce di accesso).

All’etichettificio non resta che capire quale tra le suddette soluzioni è più consona alla propria organizzazione, quale il più economico ed efficiente, quale partner tecnologico dovrà fornire i servizi cloud. Le ragioni per passare al cloud sono tante e variano da azienda ad azienda. Le piccole imprese possono non avere le risorse necessarie per gestire in modo ottimale un server per servizi il backup, altre possono ritenere più economico ospitare i propri file e servizi nel datacenter di un provider che costruirne uno proprio; aziende che hanno già investito in infrastrutture possono voler rendere più efficiente il proprio datacenter adottando le caratteristiche di un cloud privato.

Una delle piattaforme cloud in forte crescita tra le piccole e medie aziende europee che stampano packaging è FileCamp. Creata nel 2010 per migliorare la condivisione di file e la gestione degli asset digitali è stata progettata per professionisti e aziende che lavorano nel settore della grafica e dei media. Ora vanta più di 25mila utenti in trenta Paesi, ha uffici in Svizzera, Danimarca e Stati Uniti.

Quali dati condividere

Oltre ai file grafici può essere utile condividere altre informazioni, badando però a non rivelare dati sensibili e a fissare sempre stringenti clausole di riservatezza.
È utile costruire una check list per identificare i rischi e valutare la probabilità che i “casi peggiori” si realizzino causando dei danni. Così facendo si arriva a ipotizzare la reale portata del rischio, a confrontarlo con l’impatto dei benefici attesi e a prendere la decisione giusta.
È importante ricordare che la condivisione di alcuni tipi d’informazioni può essere male interpretata e arrivare a essere considerata una violazione delle norme dell’antitrust.
Potrebbe nascere il sospetto che alcuni dati possano essere utilizzati per dare vita a un cartello, ossia a un accordo tra più aziende finalizzato a limitare o eliminare la libera concorrenza, tramite, per esempio, la fissazione di un unico prezzo di vendita di una data etichetta.
Le autorità antitrust hanno facoltà di controllare i sistemi di condivisione delle informazioni e i dati condivisi per accertare che non siano utilizzati a fini diversi rispetto all’intento originale. Se in passato la tecnologia era una barriera all’entrata, oggi le nuove tecnologie sono alla portata di tutti e ai partner di progetto non resta che negoziare specifiche, modalità e suddivisione dei costi.

Supplier Relationship Management nel settore etichette
SRM (Supplier Relationship Management) è la disciplina di pianificazione strategica per gestire le interazioni con i fornitori di beni e/o servizi. L’obiettivo è massimizzare il valore delle interazioni stesse.  Una relazione così impostata comporta un’aperta e mirata condivisione di dati, tecnologie, cultura per raggiungere obiettivi comuni: è solitamente riservata a pochi fornitori accuratamente selezionati e segue un percorso in cinque fasi, una sorta di roadmap percorribile per intero o solo in parte. Ad ogni fase corrispondono specifiche attività e i progressi sono quantificabili in base a parametri ben definiti.
Il primo passaggio è composto da «selezione iniziale, audit e assegnazione di campionature e piccoli lotti di fornitura». Attività tipiche di questa fase sono: condivisione di procedure amministrative e informatiche, capitolati e specifiche tecniche, prassi per l’assegnazione delle forniture, nell’intento di minimizzare gli errori derivanti dalla mancanza di un pregresso operativo comune. Vengono altresì verificati il rispetto dei tempi di consegna; sono discusse e chiarite differenze e discrepanze procedurali.
Si passa poi alla «fase sperimentale»: le forniture sono confermate, possono nascere occasioni per verificare la reattività e la capacità di problem solving. Prevalgono le attività di fine tuning nella collaborazione tra le due aziende.
Nella successiva «fase di intensificazione» aumentano comunicazione e feedback, si condividono informazioni sui costi, si cerca il modo per snellire i processi, eliminando gli eventuali colli di bottiglia e tutti i passaggi che non danno valore per potersi focalizzare sulla valutazione di progetti reciprocamente più vantaggiosi.
Si può poi pensare a una vera e propria «integrazione». In questo caso i processi delle due aziende sono del tutto armonizzati, si condividono asset, campagne di comunicazione, risorse umane.
L’ultimo passaggio prevede la creazione di joint venture per la ricerca e sviluppo, l’innovazione, la filiera degli approvvigionamenti, la logistica, i sistemi informatici.

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