Adobe RGB o sRGB? Meglio RAW!

Digital reflex

Partiamo dall’inizio: come vengono acquisite le immagini? Nelle macchine fotografiche il formato di scatto e le impostazioni colore sono unite da un filo rosso spesso trascurato.

Per iniziare un percorso completo sulla gestione del colore è necessario partire da come sono acquisite le immagini, facendo un punto su alcune delle questioni più dibattute in ambito tecnico. I nostalgici degli scanner e delle pellicole sono sempre in numero minore: pensare oggi a quei sistemi e ai metodi che erano d’uso comune venti anni fa, stride con i nuovi standard e con le possibilità tecnologiche offerte dal mercato. Oggi buona parte delle immagini sono frutto di scatti digitali derivanti da centinaia di dispositivi differenti, più o meno professionali e ognuno con peculiarità specifiche. Per anni il mercato ha percepito la qualità di uno strumento valutando il numero di pixel elaborati: una macchina da 12mpx è meglio di una da 8mpx, per intenderci. Poco invece si è comunicato sugli aspetti legati al colore: i professionisti sapranno di certo raggiungere le relative impostazioni disponibili nelle reflex e nelle attrezzature di fascia medio alta, scoprendo almeno due voci ad alternarsi nel menù, Adobe RGB e sRGB. Altri ancora avranno sicuramente sperimentato le impostazioni sul formato di salvataggio, scoprendo dove sono allocate le scelte su Jpeg e RAW (e, in alcuni casi, sRAW, un raw che utilizza uno schema di compressione e anteprima jpeg). Pochi utenti invece sanno che la scelta del formato incide sulle impostazioni colore, annullandole in un caso: quando si scatta in RAW.

Il formato RAW (grezzo in inglese) contiene tutte le informazioni sulla luce che colpisce il sensore della macchina fotografica. Non incorpora alcuna informazione sullo spazio colore: utilizzando questo formato si ha accesso a tutti i dati di luminanza senza alcuno sviluppo colorimetrico. Una sorta di negativo che aspetta di essere sviluppato. Questo avviene per tutte le macchine fotografiche esistenti, di qualsiasi fascia. L’applicazione dell’informazione sullo spazio colore avviene appunto quando si sviluppano i dati e questo può avvenire o all’interno della macchina stessa o attraverso programmi esterni. Quando impostiamo la nostra macchina con il salvataggio in Jpeg, implicitamente stiamo chiedendo al software interno di sviluppare i dati e creare un file codificsto in Adobe RGB o sRGB, a seconda della nostra scelta iniziale.

È qui che il colore prende una connotazione specifica, in funzione dell’algoritmo proprio di ogni macchina: questi fattori, se non opportunamente valutati, possono compromettere anche la post-produzione.

I consigli per scattare al meglio

Non è mai il caso di generalizzare, mi limiterò a mettere insieme alcuni pro e i relativi contro sulle tre modalità principali di acquisizione delle immagini. Il primo caso prevede naturalmente uno scatto in RAW che, come dicevamo, contiene tutte le informazioni luminosi acquisite. E questo è sicuramente il vantaggio principale, oltre alla possibilità di lavorare a un numero differente di bit per canale. Il contrappasso sta nella dimensione del file generato e nell’impossibilità di utilizzare il file immediatamente (ad esempio, nel caso di macchine con connessioni WIFI, sarà impossibile condividere immediatamente lo scatto).

Nel caso invece di uno scatto salvato in Jpeg, abbiamo due scenari comuni in molte macchine fotografiche: scattare con Adobe RGB che ha un gamut più ampio o sRGB, relativamente più piccolo. La differenza tra i due risiede per il 25% sulle ombre, per il 50% sui toni intermedi e in massima parte per le luci (circa il 75%). Dal punto di vista del peso dei file, le differenze non sono sostanziali per cui la scelta ricade in base al tipo di soggetto ripreso o da particolari necessità di lavorazione. Il vantaggio di scattare in Jpeg sta nel suo utilizzo e nella compressione dei file che, particolarità di questo formato, risentono però della perdita di dati ad ogni salvataggio in fase di sviluppo. Anche dal punto di vista del colore, le limitazioni sono ovvie: chi sceglie Jpeg solitamente o necessità di uno scatto ready-to-use o non ha alternative.

Conclusioni

A ogni output dovrebbe corrispondere un flusso di lavoro adeguato anche dal punto di vista del color management. Se parliamo di stampa, probabilmente la scelta del formato RAW risulta la più ovvia, specie su lavori che richiedono differenti lavorazioni a seconda della tecnologia di stampa. Più dati colorimetrici sono a disposizione dell’operatore, più sarà facile far rientrare, con le opportune conversioni, i colori “percettivamente importanti” all’interno del gamut di output. Precludersi la possibilità di analizzare e lavorare i colori non ha mai quasi senso e questo i professionisti lo sanno bene.

Diamo i numeri!

Facciamo un esempio pratico per capire come pixel, bit, formato di salvataggio e spazio colore interagiscono tra loro. Immaginiamo di avere una macchina fotografica da 20 MPX che scatta in Jpeg con spazio colore Adobe RGB e a 8 bpc (Bit Per Canale, in totale 24bit). Ponendo il caso limite che tutti i pixel siano diversi, in questo caso specifico non potrò ottenere 20 milioni di colori differenti tra loro perché con 8 bpc abbiamo a disposizione un numero di colori non superiore a 16,7 milioni (256x256x256). Il volume dello spazio Adobe RGB è pari a 1207520 (fonte Color Think Pro), per cui è all’interno di questo che dovrò suddividere i colori campionabili per le mie immagini. Se scegliessi sRGB avrei un volume ridotto del 30%. Per cui, nonostante un numero ridotto di colori, scegliendo sRGB e 8bpc avrei delle sfumature migliori che con Adobe RGB.
La scelta dei bit è molto importante per le sfumature, per questo scegliendo di scattare in RAW non solo eliminiamo le “limitazioni” sullo spazio colore (che dovremmo comunque definire in fase di post-produzione) ma avremmo la possibilità di lavorare a 12 bpc (48 bit, più di 68,7 miliardi di colori) avendo la possibilità di riprodurre più sfumature anche con spazi colori più ampi come il Pro Photo RGB.

Parola all’esperto

a cura di Marco Olivotto – fisico, docente, musicista, innamorato del colore, fotografo da sempre, professionista da mai

Qualche anno fa mi venne richiesto di post-produrre delle immagini per un libro. Si trattava di fotografie aeree. Molte di esse avevano colori molto intensi a causa di condizioni di luce anomale. Il fotografo mi chiese di sviluppare i RAW in ProPhoto RGB a 16 bit e svolgere la post-produzione in Photoshop. Alla fine avrei dovuto convertire tutte le immagini in CMYK per la stampa e fare gli ultimi aggiustamenti in quello spazio colore. Il vantaggio di avere a disposizione uno spazio colore dal gamut enorme come ProPhoto RGB, però, non controbilanciava i problemi che riscontrai nel passare a CMYK, il cui gamut è molto piccolo rispetto a quello di partenza. La post-produzione in ProPhoto RGB genera facilmente colori totalmente fuori gamut, che non risultano visibili neppure a monitor. Gli algoritmi di conversione in questi casi causano spesso effetti di posterizzazione e spostamento cromatico assai sgradevoli. Oggi rifarei il lavoro partendo da uno spazio colore più piccolo e intervenendo direttamente sulle versioni CMYK. Il problema di questo approccio è che è più lungo e costoso di quello standard, e che per correggere il colore in CMYK… bisogna saperlo fare. È un’arte che va morendo, perché oggi il mondo ruota attorno a RGB. Il messaggio finale è che uno spazio colore iper esteso non rappresenta automaticamente la scelta migliore. Chi considera obsoleto e antiquato qualsiasi flusso di lavoro che non passi per ProPhoto RGB è, semplicemente, male informato.


Resta aggiornato sulle news dal mercato e non perdere gli approfondimenti tecnici del settore della stampa e della comunicazione visiva.

Abbonati a Italia Grafica, prezzo scontato fino al 50%!

   Abbonati cliccando QUI!   

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here