Neurodesign

Il design di un oggetto non è arte: le esperienze multisensoriali possono aiutare

Packaging realizzati da marco Rotondo in collaborazione con la Cartotecnica Medhea di Asti per Venchi e Guido Gobino.
Packaging realizzati da marco Rotondo in collaborazione con la Cartotecnica Medhea di Asti per Venchi e Guido Gobino.

I consumatori diventano sempre più diffidenti e consapevoli e la sfida per i brand si fa ancor più impegnativa. Sembra che ormai anche gli strumenti di marketing più sofisticati non riescano a far presa su un pubblico sedotto dalle offerte del momento e insofferente ai programmi di fidelizzazione. Il packaging, ora più che mai, può fare la differenza. Ma come può un contenitore assolvere a questa funzione?

Il Neurodesign può essere la risposta giusta per progettare confezioni sempre più efficaci sfruttando le reazioni del nostro complesso sistema nervoso. Alberto Gallace, ricercatore in Psicobiologia presso l’Università di Milano-Bicocca e professore a contratto di Neuroscienze dei Consumi presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano ci ha svelato alcuni aspetti di questa disciplina che promette sviluppi interessanti nel breve termine.

Alberto Gallace, ricercatore in Psicobiologia presso l’Università di Milano-Bicocca e professore a contratto di Neuroscienze dei Consumi presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano
Alberto Gallace, ricercatore in Psicobiologia presso l’Università di Milano-Bicocca e professore a contratto di Neuroscienze dei Consumi presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano.

Il design di un oggetto o servizio non è arte. Non si tratta di dare libero sfogo alla propria immaginazione, ma di creare un prodotto che sia qualitativamente il migliore possibile e che l’utilizzatore percepisca nel migliore dei modi.

Il neurodesign è una nuova disciplina volta a identificare quegli aspetti del design e dello sviluppo di oggetti, prodotti, ambienti e servizi (siano essi reali o derivati da interazioni uomo-macchina e virtuali) che il nostro sistema nervoso centrale identifica come più piacevoli e adeguati. Può essere considerato, almeno in parte, come uno sviluppo della neuroestetica, la disciplina che si occupa di studiare i correlati neurali delle nostre valutazioni estetiche. La ricerca in questo campo ha identificato le aree cerebrali responsabili della percezione del bello e del piacere. Per esempio, è stato mostrato come l’attivazione di centri cerebrali quali la corteccia orbitofrontale, indica il coinvolgimento del sistema della ricompensa umana, quel network neurale che determina la nostra motivazione a intraprendere determinate azioni per raggiungere un obiettivo o un rinforzo. A livello applicativo, questo dato è molto importante, anche perché, più tale sistema è attivato e maggiore è la nostra propensione a pagare un prezzo più alto per acquistare un prodotto. Questo implica che un servizio o prodotto di successo e qualità, in molti casi dovrebbe mirare a massimizzare l’attivazione proprio di tali sistemi. Le neuroscienze cognitive ci possono aiutare a capire come ottenere questo risultato.

È evidente che informazioni di tale portata possano costituire una grande risorsa per chi di mestiere progetta e realizza packaging: se utilizzate adeguatamente potrebbero limitare o addirittura impedire di commettere errori che potrebbero determinare il fallimento di nuovi prodotti immessi sul mercato. Grazie al neurodesign è possibile individuare quegli aspetti del design che il nostro sistema nervoso centrale identifica come più piacevoli e adeguati e in questo modo sarà più semplice ottenere prodotti di successo.

Packaging realizzati da marco Rotondo in collaborazione con la Cartotecnica Medhea di Asti per Venchi e Guido Gobino.
Packaging realizzati da marco Rotondo in collaborazione con la Cartotecnica Medhea di Asti per Venchi e Guido Gobino.

Il cervello determina le nostre abitudini di acquisto

Il nostro sistema nervoso riceve una serie d’informazioni in ingresso riguardo a un prodotto, le traduce in un linguaggio elettrochimico, le processa, le immagazzina, le confronta con dei dati a sua disposizione e dà poi origine a determinate risposte cognitivo-comportamentali, fisiologiche ed emozionali. «Quello che noi ricercatori cerchiamo di far capire a designer ed esperti di marketing – ci racconta Alberto Gallace, ricercatore e docente universitario – è che noi non acquistiamo o valutiamo mai un singolo oggetto ma una complessa esperienza multisensoriale. Le neuroscienze cognitive ci aiutano a comprendere quali combinazioni sensoriali producono l’esperienza che desideriamo veicolare, riducendo i rischi di mettere sul mercato un prodotto o un servizio destinati a fallire».

Percepire il prodotto attraverso il packaging

Diversi esperimenti condotti nei laboratori di ricerca diretti dal dr. Gallace hanno dimostrato che, per esempio, la percezione di piacevolezza e frizzantezza di una bevanda può variare in funzione del colore, del peso e della ruvidità del contenitore nel quale viene consumata. Non a caso alcune aziende iniziano a brevettare le sensazioni tattili veicolate dal loro packaging, così come si fa per loghi, nomi, colori e suoni legati a un determinato brand. «Spesso le finiture adottate dalle case produttrici si limitano a dei timidi tentativi – continua Gallace – mentre grazie alle neuroscienze cognitive sarebbe possibile osare di più riuscendo a conferire ai contenitori la percezione del lusso, della qualità, della praticità o dell’ecosostenibilità.»

Razionalità o emotività: quale prevale durante gli acquisti?

È impossibile dire con precisione quale componente – razionale o emotiva – abbia il sopravvento durante la fase di acquisto di un prodotto poiché dipende da una serie di importanti variabili quali il tempo a disposizione, il livello di coinvolgimento nell’acquisto, la tipologia di prodotto che si sta acquistando e così via. Sappiamo però che la componente emozionale è di gran lunga superiore rispetto a quanto si possa pensare. «Negli ultimi anni si parla di marcatori somatici, e di quanto questi siano rilevanti nel determinare le nostre scelte e decisioni», spiega Gallace. «Per esempio, quando ci troviamo davanti a un prodotto, il nostro sistema neurale lo classifica immediatamente come piacevole e non piacevole e produce una risposta fisiologica appropriata: può aumentare il battito cardiaco, la frequenza di respirazione, la produzione di alcuni mediatori chimici e così via. Quando incontriamo nuovamente lo stesso prodotto, una risposta fisiologica simile viene attivata automaticamente dal nostro cervello in particolare quando non sappiamo decidere tra due prodotti simili e siamo di fretta o ci troviamo in un ambiente rumoroso o affollato.»

Ciò dimostra che la risposta emozionale e fisiologica spesso domina sulla nostra capacità di ragionamento nel determinare il nostro comportamento, anche quando riteniamo che non sia così.

Packaging realizzati da marco Rotondo in collaborazione con la Cartotecnica Medhea di Asti per Venchi e Guido Gobino.
Packaging realizzati da marco Rotondo in collaborazione con la Cartotecnica Medhea di Asti per Venchi e Guido Gobino.

Il tatto orienta le nostre scelte

Spesso sottostimiamo il ruolo del tatto perché agisce in gran parte a livello automatico. Il nostro cervello elabora l’informazione che ci viene dal contatto diretto con superfici, ambienti e persone e la utilizza per orientare le nostre scelte. Gallace ci spiega che alcuni dei prodotti di design di maggiore successo come la bottiglia della Coca-Cola o i prodotti Apple, hanno un’inconfondibile e unica componente tattile. «Nei nostri laboratori abbiamo mostrato che le risposte del sistema nervoso autonomico (quello che produce cambiamenti nel battito cardiaco, respirazione e sudorazione), che sono poi quelle che ci fanno approcciare o evitare uno stimolo, sono molto più marcate se esploriamo tattilmente un oggetto e non se ci limitiamo a guardarlo. La ricerca neuroscientifica ci mostra inoltre che le risposte fisiologiche e emozionali al contatto con un prodotto possono essere diverse per uomini e donne o variare in funzione di determinate caratteristiche della persona, un dato particolarmente utile quando ci si confronta con un bisogno di segmentazione di mercato.»

Creatività e razionalità possono convivere

Spesso quando si parla di design si pensa all’aspetto più propriamente creativo. L’uso di un dato scientifico, da questo punto di vista, sembra quindi “inquinare” la componente creativa. D’altra parte però, il design di un oggetto o servizio non è arte. Non si tratta di dare libero sfogo alla propria immaginazione, ma di creare un prodotto che sia qualitativamente il migliore possibile e che l’utilizzatore percepisca nel migliore dei modi. «Io posso dire a un designer che per riprodurre una particolare esperienza percettiva ed emozionale derivante dall’uso di un certo oggetto, andrebbero usati specifici colori, texture di superficie, forme – sottolinea Gallace – e che la combinazione di forme su cui sta attualmente lavorando potrebbe non essere la più efficiente o ancora che in quel prototipo di prodotto manca un elemento importante per la valutazione del consumatore.» Sta alla creatività e all’esperienza del designer mettere insieme al meglio i suggerimenti offerti dalle neuroscienze e trovare soluzioni innovative.

Le reazioni della comunità creativa

Ma i creativi che atteggiamento assumono rispetto a questi studi? Ci sono sicuramente gli entusiasti e gli scettici ma in linea generale sembra che tra i designer e le neuroscienze applicate ci sia spesso una relazione di amore-odio. «Cerco sempre di ricondurre le reazioni su un campo neutro – continua Gallace – non si può reagire al dato scientifico con emozionalità, bisogna valutarne i possibili benefici e limitazioni in modo razionale.»

In particolare il ricercatore ci racconta che sono soprattutto le aziende italiane a non mostrare interesse per questi studi che invece potrebbero essere di grande aiuto. «Il nostro Paese ha le potenzialità per essere ai massimi livelli in moltissimi campi produttivi e nel design la nostra forza non è in discussione. Ma puntare sull’innovazione e sulla ricerca è indispensabile per un’azienda che voglia competere a livello mondiale.»

L’inefficacia delle ricerche di mercato e dei focus group

A questo punto sorge spontanea una domanda: questi studi soppianteranno le classiche ricerche di mercato e i focus group normalmente utilizzati per conoscere le abitudini e le preferenze dei consumatori? «Sono sicuramente strumenti importanti sia per lo sviluppo di prodotti, che per la decisione su una strategia di marketing» conclude Gallace. «Il vero problema è quando queste vengono utilizzate senza ulteriori supporti, per esempio quello offerto dalle neuroscienze cognitive.» In generale il punto della questione è che alcuni dei  metodi classici attraverso i quali si ottengono informazioni sulle caratteristiche considerate importanti per la valutazione di un oggetto, nella fattispecie i focus group, non sono più sufficienti a indirizzare lo sviluppo e il design di un nuovo prodotto se utilizzati singolarmente.

Il punto di vista di chi ha deciso di raccogliere la sfida

Pur essendo il neurodesign un argomento di grande attualità che suscita molto interesse tra gli addetti ai lavori, è difficile trovare esempi concreti nel nostro Paese. Siamo ancora in una fase preliminare circoscritta all’acquisizione d’informazioni o c’è di più? Quanto questi studi hanno attirato l’attenzione di tutti coloro che potrebbero trarre beneficio dalla sua applicazione, dai designer di packaging ai produttori di imballaggi per arrivare ai brand di tutte le aree merceologiche?
Lo abbiamo chiesto a chi, in modo diverso, sta cercando di andare oltre e attraverso una serie di iniziative tenta di capire come trasformare delle affascinanti tesi in prodotti pronti a «catturare» consumatori sempre più consapevoli e diffidenti. Stefano Torregrossa, designer, Marco Rotondo, consulente di Packaging e Stefano Lazzari ,CEO di Sirap ci hanno raccontato la loro esperienza.
Creatività vs razionalità?
Si definisce freelance designer, docente e typelover Stefano Torregrossa. Scrive anche bene e sul suo sito Onice Design è possibile leggere i suoi Racconti tipografici davvero coinvolgenti. Si occupa da anni di brand design, print design e packaging, è acuto e curioso e soprattutto ama sperimentare. Naturale chiedergli un’opinione sull’argomento, considerato che i creativi sembrano essere ai margini di quella che appare come una vera rivoluzione. «Una materia che analizzi le reazioni consapevoli e inconsapevoli di un utente di fronte a un prodotto di comunicazione, rappresenta una componente fondamentale in un processo di design», dice Stefano. «D’altronde cercare di prevedere la percezione di un prodotto da parte del proprio target è un passaggio irrinunciabile in qualunque progettazione grafica.»
OLYMPUS DIGITAL CAMERA
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Ma c’è chi sostiene che la creatività sia per definizione irrazionale e che un creativo non debba essere costretto ad agire secondo parametri precisi. «La creatività può anche essere irrazionale, ma non lo è il design» continua Torregrossa. «Il design è ingegneria, risoluzione di problemi, unità di un processo legato a doppio filo al marketing. Se un design non è razionale non è un buon design, è un esercizio decorativo fine a se stesso.» In quest’ottica, secondo il designer veronese, il neurodesign può essere una componente fondamentale per valutare le reazioni del pubblico di fronte a un prodotto di comunicazione.
Ma allora perché, stando anche a quanto dichiarato dai ricercatori, i creativi non sembrano appassionarsi a questi temi? Secondo Torregrossa si tratta di una materia relativamente nuova e sconosciuta al pubblico dei designer. Dall’altra parte, la formazione scolastica e parascolastica di un creativo non prevede (ancora) materie legate a questa disciplina. «Potrebbe essere un’interessante aggiunta ai programmi formativi, soprattutto oggi che – purtroppo – molte scuole si orientano verso competenze più pratiche che teoriche.»
Virtuosismi cartotecnici per conquistare i consumatori
Marco Rotondo si definisce un freelance. Dopo una laurea in Scienze Politiche e un’esperienza da imprenditore con un’azienda cartotecnica, oggi collabora con brand di primo piano ai quali offre la sua consulenza per realizzare packaging e pop. Un’attività che lo impegna in una ricerca continua per offrire ai suoi potenziali clienti proposte innovative.

marco rotondo

«Il mio lavoro è anche la mia passione – dice Rotondo – mi occupo da sempre di questo e mi piace confrontarmi per aver nuovi spunti.» Infatti Marco ha anche un blog L’Angolo Rotondo, molto apprezzato soprattutto dalla comunità di Linkedin che segue con interesse i suoi post. «Il blog nasce dalla voglia di diffondere la cultura grafica. È per questo che scelgo temi apparentemente noti a tutti, come le prove colore, che nascondono però molte insidie. E poi ci sono i corsi di formazione. Insomma, un’attività diversificata basata sul confronto continuo alla ricerca di nuovi stimoli. «Mi sono sempre interessato ai comportamenti umani – prosegue Rotondo – e considerato quello che faccio mi interessano in particolare i meccanismi che si mettono in moto in fase di acquisto.» È così che dopo alcune ricerche e letture inizialmente deludenti, anche Marco si appassiona al neurodesign e al neuromarketing e cerca di saperne di più. «È noto che negli ultimi anni le persone tendano a razionalizzare gli acquisti e a puntare sulle offerte, sulla convenienza e sulla sobrietà. La crisi ci ha portato alla consapevolezza dell’acquisto: compriamo ciò che ci serve realmente e sempre più occasionalmente ci lasciamo andare all’istinto.» Ecco perché l’imballaggio oltre a poggiare sui cardini della funzionalità e dell’estetica deve assolvere a un compito più importante: convincerci a comprare quel prodotto.
In particolare, Rotondo è interessato al mercato del lusso. «La mia attività spazia tra il parafarmaceutico, il dolciario e il tessile di alta gamma ma ritengo che il mercato del luxury sia in questo momento quello che più si presta a questa sperimentazione.» Insieme al dr. Alberto Gallace e alla Cartotecnica Medhea di Asti, che si è prestata a realizzare i packaging che verranno testati nella ricerca, Rotondo sta muovendo i primi passi per mettere a punto una ricerca che esplori quali sono i materiali, le finiture e le forme che meglio veicolano l’idea del lusso. «L’obiettivo è quello di dare una base scientifica a ciò che per noi è intuitivo: sono certo che potrebbe essere un ottimo punto di partenza per dare concretezza a questi studi.»
Anche il Food vuole la sua parte: un’esperienza da imitare
Impegnata nel settore del packaging alimentare in Europa grazie alla produzione di vaschette in polistirolo espanso e in plastica rigida, Sirap è una multinazionale che conta 19 aziende in 16 Paesi con nove stabilimenti di produzione, un fatturato di 220 milioni di euro e 1150 collaboratori. Un’azienda tutta italiana con sede a Verolanuova, in provincia di Brescia, nata dall’aggregazione di alcune aziende storiche che un mercato sempre più competitivo ha costretto a una lunga e complessa riorganizzazione durata tre anni. «Terminata la fase riorganizzativa e rilanciati gli investimenti in termini di tecnologia e personale, abbiamo ricostituito un nucleo di Ricerca & Sviluppo e innovazione», ci racconta Stefano Lazzari, CEO della società. I ricercatori e i designer della Sirap collaborano con varie università anche internazionali su più fronti: dall’Istituto di Tecnologie Alimentari per studiare come prolungare la conservazione del cibo, ai dipartimenti di chimica dei materiali, fino a una recente collaborazione con il Polidesign.
«Collaborare con le università ci consente di avere uno sguardo più lungo rispetto alle tendenze e all’evoluzione dei mercati nei quali operiamo», dice Lazzari. Ma la competitività sempre più spinta impone di anticipare i bisogni dei propri clienti per produrre contenitori sempre più innovativi per funzionalità e praticità, che inducano il consumatore a preferire un prodotto a un altro. Ed è qui che entra in gioco il neurodesign: meglio un contenitore completamente trasparente che consenta di vedere il fondo e verificare l’integrità del cibo o è preferibile il polistirolo perché dà più l’idea di protezione? Meglio una vaschetta quadrata o rotonda? È più opportuna la trasparenza o il colore? Come funziona un contenitore al tatto? «Sono rimasto affascinato dalla letteratura su questo argomento e ho capito che si trattava di una sfida entusiasmante che la mia azienda doveva assolutamente raccogliere.»
In che modo è presto detto. Un gruppo internazionale di studenti del Politecnico di Milano insieme ad alcuni dipendenti della Sirap, coordinati da docenti del Poli e consulenti esterni, lavoreranno gomito a gomito per quattro settimane con l’obiettivo di individuare dei temi di sviluppo che la Società, con l’aiuto di Alberto Gallace, si concentrerà a portare avanti nei prossimi due anni. Difficile immaginare i risultati ma è probabile che il nostro supermercato, tra qualche anno, ci riserverà non poche sorprese.

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