Packaging alimentare

Come scegliere inchiostro e vernici a norma

Nel packaging alimentare è sempre difficile districarsi tra norme, procedure e dichiarazioni di conformità. A volte però basta la consapevolezza di quanto si andrà a produrre e un pizzico di sano buonsenso. Ecco allora alcune cose fondamentali che gli stampatori devono conoscere.

Con l’alimentare non si scherza. La sua lavorazione è certamente molto complessa e bisogna definire in anticipo e con grande oculatezza tutta la linea di produzione, in modo tale da avere sempre le idee chiare su quello che si fa. E occorre soprattutto avere l’occhio «lungo» per evitare in futuro di rimanere stritolati nell’insidiosa minaccia delle contestazioni. Che, anche se remota, è un eventualità sempre possibile.

«Il tema della scelta dei materiali per il packaging alimentare noi lo vediamo sempre dal punto di vista degli stampatori, ma occorrerebbe osservarlo dalla prospettiva degli utilizzatori finali», dice Carlo Carnelli, presidente di Taga italia www.taga.it, membro del Comitato Tecnico Iso- Tc130, nonché amministratore unico di ColorConsulting. «Il packaging deve infatti garantire la protezione durante il trasporto, l’igiene e la salvaguardia dalle varie contaminazioni chimiche e batteriche. E solo successivamente si può ragionare sul fatto che deve fornire anche informazioni sul prodotto ed essere utilizzabile dal punto di vista del marketing sul punto vendita. Quello che nel packaging non è infatti assolutamente accettabile è che vengano trasferite sostanze nocive dai materiali esterni al prodotto in esso contenuto. È bene quindi saper fare alcune valutazioni fondamentali, le quali serviranno sempre, anche per i settori non-food. Esistono, non dimentichiamolo, anche le confezioni per articoli molto delicati come quelli elettronici, chimici o organici, che devono essere preservati da campi magnetici, da influenze negative o da sostanze reattive.

Ecco perché, prima di identificare i substrati da utilizzare, occorre conoscere quali sono le interazioni possibili tra pack e contenuto, in modo tale da poter gestire nel migliore dei modi inchiostri e supporti».

Tre tipi di trasferimento

«Fondamentalmente esistono tre tipologie di contaminazione», dice Carnelli. «Oltre alla “migrazione” dello stampato a contatto diretto con il food, esiste anche il “set-off invisibile”, cioè la condizione in cui il pack stampato è assolutamente perfetto ma viene erroneamente impilato uno sull’altro o arrotolato in bobina: in questo caso può avvenire una seria contaminazione perché la parte interna, sicura, è a contatto con quella esterna, stampata. Un esempio eclatante di set-off invisibile è avvenuto a fine 2005 quando venne scoperta la contaminazione di un fotoiniziatore, l’Itx (Isopropil Tioxantone), in confezioni di cartone poliaccoppiato destinato a contenere yogurt e latte. Il terzo tipo di trasferimento può infine avvenire attraverso quella che viene chiamata “fase gassosa” quando alcuni prodotti, per esempio i biscotti appena sfornati, tendono a rilasciare l’aroma all’interno della scatola di cartone che li contiene e, al tempo stesso, la confezione tende a sua volta a rilasciare l’odore del cartone. A quel punto vince l’odore più forte. E se alla fine il biscotto sa di cartone vuol dire che qualcosa non è andato per il verso giusto».

«Barriere», non materiali

Basandosi su questi tre tipi di trasferimenti si può dunque andare a operare una discriminazione più precisa dei materiali da utilizzare. «È preferibile però chiamarle “barriere”, e non “materiali”», puntualizza Carnelli, «e fondamentalmente vengono suddivise in tre tipologie: le barriere “permanenti”, rappresentate da vetro, metallo e alluminio con spessore superiore ai 7 μm; le barriere “funzionali”, che sono generalmente in film plastico e rispondono a requisiti di resistenza a specifiche temperature (alte o basse) o agenti chimici; e infine l’assenza totale di barriera dal momento che, non essendoci la necessità di particolari requisiti, ci si può accontentare semplicemente della carta o del cartone».

«La scelta della tipologia di barriera da utilizzare deve quindi essere fatta in funzione del prodotto da contenere. È evidente però che carta e cartone semplici non sono barriere protettive e, a quel punto, la scelta di inchiostri e vernici va fatta in modo molto accurato», sottolinea Carnelli. «Si può sempre stampare con un film d’alluminio, ma se si lavora in bobina e si corre il rischio di una contaminazione da set-off, occorre stare attenti a quali inchiostri si utilizzerà. Occorre quindi iniziare a definire con metodo quali materiali impiegare, dividendoli in due categorie principali: quelli per l’outside-printing, dove non c’è contatto diretto con l’alimento, e quelli per l’inside-printing dove invece il contatto c’è».

La responsabilità legale

Un’altra cosa importante da sottolineare è che per il Regolamento Europeo relativo all’imballo alimentare il responsabile legale non è mai lo stampatore ma il distributore dei prodotti confezionati. Vale a dire che, se c’è una contaminazione sulla pasta, per fare un esempio, il responsabile legale sarà il pastificio oppure l’azienda che distribuisce quel brand. Ma questi ultimi potranno sempre rovesciare le responsabilità anche sui propri fornitori, se gli sarà possibile farlo. Per questo motivo la normativa in materie dice che il distributore deve avere un approccio “responsabile” e quindi deve richiedere responsabilità a tutta la sua catena produttiva.
«Se consideriamo tutta la catena di responsabilità nel settore dell’imballaggio alimentare», continua Carnelli, «prima di arrivare al distributore abbiamo lo stampatore o il converter e prima ancora ci sono almeno tre passaggi fondamentali che sono rappresentati dai produttori di substrati, di inchiostri e di adesivi, più altre cose ausiliarie ma minori. Il substrato e gli inchiostri comprati dallo stampatore dovrebbero quindi essere generalmente “coperti” da una Gmp (good manufacturing practice) che prescrive la buona preparazione del prodotto in conformità con le normative vigenti, e che lo stampatore dovrebbe aver richiesto al proprio fornitore».

«Per quanto riguarda i substrati, basta chiedere la dichiarazione di conformità in funzione del prodotto che deve essere contenuto. Non basta però la semplice dichiarazione di “imballo stampato in flessografia”, ma occorre dire che quel packaging in flexo è, per esempio, destinato alla refrigerazione o alla cottura in forno a microonde», sottolinea Carnelli.

«Per gli inchiostri il discorso è un po’ più complesso, anche se ormai anche i produttori si stanno uniformando sulla necessità di avere una Gmp. La grossa differenza è che, mentre sui substrati le normative sono molto prescrittive e precise, per gli inchiostri le ordinanze sono più complicate: esistono infatti tre “ordinanze” che sono frutto di regolamentazioni europee: detta in soldoni, una di queste è specifica per la plastica e copre tutti i film, mentre per gli inchiostri chi fa attualmente da apripista sono l’ordinanza svizzera sui “full contact materials” e l’ordinanza tedesca che si sta usando attualmente per scrivere quelle europee e la guida Eupia (European Printing Ink Association)».

Il ruolo dei grandi brand

E in assenza di una legislazione specifica anche marchi importanti come Nestlé hanno creato alcune norme standard, racconta Carnelli: «I grandi brand hanno assunto in maniera restrittiva tutte le norme esistenti, soprattutto quella svizzera, e si sono scritti un capitolato di fornitura con il quale vanno a escludere determinate sostanze. Gli inchiostri devono essere formulati non ammettendo alcune materie prime cancerogene, mutagene, tossiche ecc.: e tra questi ci sono anche i coloranti basati su metalli pesanti. Tutte queste sostanze non possono essere più utilizzate per produrre un inchiostro. E quest’elenco viene aggiornato costantemente. Ciò, a suo modo, ha creato un processo virtuoso, perché i produttori di inchiostro si sono dovuti adeguare alle richieste dei grandi brand, anche se questo non comporta un adeguamento pieno e corretto alle Gmp».

Formulazioni e tracciabilità

Tornando invece alle normative e alle ordinanze esistenti, ci sono alcuni limiti di migrazione per le sostanze nocive, ma anche per quelle che possono modificare odore e gusto o in grado di generare alterazioni nel colore degli alimenti. «I produttori di inchiostri hanno adottato formulazioni con materie prime “valutate”», spiega Carnelli. «La Gmp degli inchiostrai prevede infatti una valutazione precisa e costante delle materie prime impiegate. Ma anche il grado di purezza delle materie prime è diventato un requisito dirimente, dal momento che la miscelazione di componenti in esse contenute può generare reazioni che ne mutano le caratteristiche di base».

Un’altra prescrizione importante è quella di evitare la mescolanza tra le sostanze utilizzate in una formulazione, vale a dire che deve esserci una tracciabilità interna di tutte le materie prime impiegate. «Se si prende un prodotto certificato per il food già in dotazione allo stampatore e si comunica al fornitore di inchiostri il codice di produzione, quest’ultimo dev’essere in grado di risalire a tutte le patch di produzione di materie prime che sono entrate in quel prodotto. Questo “storico” delle materie prime viene utilizzato nei casi in cui succeda qualcosa di negativo, e non è detto che la responsabilità ricada sempre sul brand owner. Il quale, se può, si rifarà sullo stampatore; che a sua volta deve possedere tutte le informazioni sulla tracciabilità per potersi rivalere sul produttore di inchiostri. Occhio dunque, la tracciabilità va sempre richiesta e aggiornata».

Gli stampatori seguono le procedure?

E qui arriviamo a un altro punto cruciale. Capita infatti che l’ufficio acquisti dello stampatore sia attentissimo a richiedere tracciabilità e quant’altro serva per avere sempre inchiostri certificati a bassa migrazione, e consumabili di qualità e supertecnici, ma poi si esponga facilmente a grossolani rischi di contaminazione.
«Se dovessimo fare le cose in modo perfetto, bisognerebbe eliminare tutte le possibilità di contatto con materiali e produzioni diversi da quelli per il food. Ed è qui che casca l’asino degli stampatori», dice Carnelli. «Oggi si stampa la scatola della pasta con inchiostri a bassa migrazione, domani il volantino per il supermarket e il giorno dopo ancora si ristampa la scatola della pasta. È chiaro che se non si opera una profonda bonifica della linea di produzione, con il cambio dei rulli e con una pulizia approfondita di calamai ecc., la contaminazione è assicurata».

«Tant’è vero che i produttori di inchiostri garantiscono il prodotto fino al momento in cui non si apre il barattolo», dice Carnelli. «Basta infatti soltanto una spatola leggermente sporca per creare un serio inquinamento della formulazione. L’unica via possibile è allora quella di avere macchine e linee dedicate, e non ha senso buttarsi in questo business se non si è adeguatamente attrezzati. Oltretutto gli inchiostri destinati a questo genere di stampati costano di più degli altri. Occorre dunque buon senso, anche in considerazione del fatto che, nel caso in cui si utilizzi una barriera di tipo diverso, non serve un inchiostro così prestante. Quindi lo stampatore deve saper giostrare tutte queste informazioni strategiche nella scelta finale dei materiali da impiegare».

Miscelare in casa

Lo stesso discorso vale quando si prevede una miscelazione in casa, laddove alcune formule possono interagire e modificare la propria composizione. «Alcuni distributori hanno stazioni di miscelazione riservate a questo genere di prodotti», spiega Carnelli. «La tracciabilità delle miscele fatte in casa è però molto delicata, perché in caso di contestazioni bisogna essere in grado di gestire un batch di produzione tramite l’ausilio di software, codici a barre ed eventualmente di etichette, in modo tale da riuscire a reperire sempre tutte le informazioni di tracciabilità disponibili, anche a distanza di anni. Occorre infatti poter risalire alle materie prime utilizzate in quella formulazione, altrimenti la responsabilità ricade tutta sullo stampatore».

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