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Randy Vandagriff parla della stretegia Kodak per il futuro, tra Ultrastream e Prosper

Randy D. Vandagriff da maggio Presidente della divisione EISD (Enterprise Inkjet Systems Division) di Kodak e Vice Presidente di Eastman Kodak Company.
Randy D. Vandagriff da maggio Presidente della divisione EISD (Enterprise Inkjet Systems Division) di Kodak e Vice Presidente di Eastman Kodak Company.

A maggio 2017 Randy D. Vandagriff è stato nominato Presidente della divisione Eisd (Enterprise Inkjet Systems Division) di Kodak e Vice Presidente di Eastman Kodak Company. Dopo un anno ricco di speculazioni in cui si sono succedute le più svariate ipotesi su quello che sarebbe stato il futuro della divisione Prosper, finalmente è stato possibile mettere un punto a questa travagliata vicenda. Quando sembrava ormai definitiva la sua decisione di cedere questa divisione, Kodak, con un annuncio a sorpresa il 7 aprile scorso, ha affermato di non voler più procedere con la dismissione e di aver deciso di mantenere Prosper al suo interno. Ed è proprio alla luce di questa inversione di rotta che Randy risponde ad alcune domande per chiarire la posizione della divisione Eisd e fornire delle anticipazioni su quello che, secondo lui, sarà il futuro di questa unità operativa.

Intervista a cura di Kodak.

Cosa ne pensi della decisione di Kodak di mantenere la divisione Prosper?

«Rispetto e condivido pienamente la scelta di Kodak di mantenere questa divisione all’interno dell’azienda. E sono estremamente felice che sia stata finalmente scritta la parola fine a questa vicenda. Nel corso di quest’ultimo anno, il team Prosper è riuscito a realizzare dei risultati davvero eccezionali, a riprova del valore della nostra tecnologia e dell’impegno del nostro team.

«Kodak ha investito molto nello sviluppo della tecnologia di stampa a getto d’inchiostro e la sua decisione di mantenere questa divisione è un’ulteriore dimostrazione del suo convinto impegno per il futuro del settore della stampa. Con un’offerta di tecnologie di stampa estremamente ricca che spazia dalla stampa offset e flessografica tradizionale fino all’emergente stampa digitale, Kodak ha tutte le carte in regola per dimostrarsi la migliore alleata dei clienti, in quanto li aiuta a cambiare le dinamiche del mercato, permettendo loro nel contempo di ampliare la loro quota di mercato e consolidare i loro volumi di stampa.»

Come procede l’attività Prosper quest’anno e quali sono i risultati raggiunti?

«La nostra divisione Enterprise Inkjet Systems Division (Eisd), che include le attività Kodak Versamark e Kodak Prosper, ha fatturato $ 37 milioni nel primo trimestre di quest’anno (34 milioni di € circa, ndr), realizzando così un ottimo risultato. Se poi confrontiamo questo dato con i $ 34 milioni fatturati nello stesso periodo del 2016, non possiamo che rallegrarci davanti a un aumento del 9%.

«Per il primo trimestre del 2017, l’attività Prosper è andata in crescendo con prestazioni sempre migliori e ha prodotto un aumento dei ricavi pari al 26% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.»

A cosa si deve questo eccezionale aumento dei ricavi?

«Fondamentalmente sono tre i fattori alla base di questo eccezionale risultato:

  1. La crescita del nostro MIF, cioè delle macchine in campo, e l’incremento nel numero di installazioni delle macchine Prosper nel 2015 e nel 2016.
  2. L’aumento nella richiesta di macchine da stampa Prosper da parte dei nostri clienti abituali che ne hanno bisogno per fare fronte alla crescente domanda di stampe da parte dei loro utenti.
  3. Un costo unitario di produzione degli inchiostri sempre più conveniente per noi in quanto acquistiamo una quantità maggiore di ingredienti per soddisfare l’aumento nei volumi di vendita.»

Qual è la vostra strategia di gestione della divisione Prosper per quanto riguarda il futuro?

«Proprio quest’anno festeggiamo i nostri primi 50 anni nel settore della stampa a getto d’inchiostro e gli eccezionali risultati fin qui ottenuti nascono proprio dalla pluriennale esperienza di Kodak nel mettere a punto e offrire una tecnologia a getto d’inchiostro che ormai è riconosciuta come leader del mercato. Ma nessuno di noi ha intenzione di dormire sugli allori e quindi è chiaro che continueremo a fare leva sulle esclusive Value Proposition di Stream che da sempre differenziano la nostra tecnologia.

«La nostra strategia si basa su una presenza ininterrotta, sulle installazioni e sulle prestazioni della nostra linea Stream di cui fanno parte 64 macchine da stampa Prosper e 1.329 teste Prosper già installate in tutto il mondo. Ma naturalmente questo non ci basta. Partendo dalla nostra innegabile esperienza, stiamo facendo un passo in più con la tecnologia Ultrastream. La divisione Eisd punta a stringere una serie di accordi strategici con alcuni produttori di attrezzature originali (OEM) affinché possano creare nuove applicazioni in grado di guidare la domanda di mercato per questa tecnologia e velocizzare la portata e la crescita dell’attività Prosper.

«Possiamo certamente affermare che la tecnologia Ultrastream apre nuovi orizzonti nella stampa a getto d’inchiostro. Facendo leva sulle numerose invenzioni proprie di Stream, questa tecnologia ci permette di confermare il valore associato alla nostra esclusiva tecnologia a getto d’inchiostro continuo e garantisce la flessibilità e la facilità di integrazione che spingono gli OEM a scegliere Kodak quando si tratta di sviluppare nuove soluzioni a getto d’inchiostro. Abbiamo messo a punto un programma Pioneer per un coinvolgimento a 360° dei potenziali partner OEM fin dalle primissime fasi del processo di sviluppo. Avere la possibilità di confrontarci con loro ci permetterà di comprendere appieno i loro requisiti, di indirizzare e definire il progetto in modo che possa rispondere al meglio alle loro esigenze e di rendere più sicura la pipeline. E potremo fare tutto questo prima di mettere a punto la versione definitiva della piattaforma Ultrastream.

«Inoltre stiamo utilizzando la nostra linea corrente di tecnologia Stream per espandere la nostra presenza nelle nuove applicazioni, in particolare nel settore del packaging e delle etichette. La macchina da stampa Sapphire EVO di Uteco che utilizza la tecnologia Stream Inkjet di Kodak ne è un perfetto esempio.»

Come procede lo sviluppo della tecnologia Ultrastream?

«Stiamo rispettando i tempi programmati sia per quanto riguarda lo sviluppo che la commercializzazione di Ultrastream, la nostra rivoluzionaria tecnologia a getto d’inchiostro che si rivolge in primis agli operatori di settori quali editoria (riviste/cataloghi), packaging, etichettatura e décor. I kit di valutazione saranno disponibili in numero limitato all’inizio del quarto trimestre quest’anno e la commercializzazione della prima soluzione Ultrastream è prevista per il 2019.»

State continuando a vendere le macchine da stampa Prosper? E prevedete di offrire ai vostri clienti la possibilità di passare a Ultrastream?

«Assolutamente sì. Il servizio di vendita e assistenza delle macchine da stampa e dei sistemi Prosper continuerà a essere fornito da Kodak. Per quanto riguarda l’installazione delle macchine da stampa, la nostra attenzione sarà rivolta principalmente alle applicazioni in alte tirature; le tipografie digitali come KP Services nelle Channel Islands sono un ottimo esempio. Inoltre stiamo ampliando i limiti delle applicazioni ibride con l’installazione della prima macchina Prosper 6000S presso Zumbiel, un’azienda specializzata nella fornitura di packaging in cartone, così da offrirle nuove funzionalità digitali.

«Ai nostri clienti Prosper verrà offerta la possibilità di passare alla tecnologia Ultrastream, ma è bene ricordare che questo aggiornamento interesserà diverse applicazioni in cui i clienti hanno bisogno di una migliore qualità di stampa a fronte di una ridotta velocità.»

Come procede l’avventura di KP Services?

«L’attività di stampa di KP Services nelle Channel Islands sta andando benissimo, riusciamo a rispondere alle richieste degli editori e a rispettare gli obiettivi che ci siamo posti a livello di volume di stampa. Recentemente abbiamo completato l’installazione di una terza macchina da stampa Prosper 6000; considerato il continuo aumento nel volume di stampa non potevamo più rimandare. E naturalmente guardiamo con ottimismo al nostro futuro nel settore della tipografia che, con queste premesse, non potrà che essere radioso.»

Puoi dirci qualcosa sugli OEM con cui avete in programma di collaborare? Magari farci qualche nome in anteprima…

«Al momento abbiamo 19 Lettere di Intenti, la maggior parte delle quali proviene da OEM; qualcuna però proviene anche da utenti finali strategici. Stiamo continuando a incontrare altri OEM interessati a testare la tecnologia non appena sarà disponibile il kit di valutazione. Questi OEM rappresentano un campione eterogeneo di produttori di tutte le applicazioni a cui puntiamo, incluse stampa commerciale, del packaging, delle etichette e del décor. Tra le aziende che sappiamo già che riceveranno il kit di valutazione ci sono nomi di spicco quali Fuji Kikai, GOSS China, Matti, Mitsubishi Heavy Industries Printing & Packaging Machinery (MHI-PPM) e Uteco. Ma naturalmente questo è solo un elenco parziale in quanto il successo di questa iniziativa ha superato anche le nostre più rosee aspettative…

«Stiamo coinvolgendo anche quelli che per noi sono utenti finali strategici, per valutare se ci possono essere opportunità per nuove applicazioni. Proprio recentemente abbiamo potuto notare un notevole interesse da parte degli utenti finali che operano nel settore del décor e che stanno cominciando a comprendere il valore della stampa digitale e i vantaggi che questa tecnologia può offrire loro in termini di riduzione degli sprechi e dei costi operativi rispetto alla stampa in acquaforte tradizionale.»

Quando possiamo aspettarci di vedere il primo prodotto Ultrastream sul mercato?

«Prevediamo che il primo prodotto sarà disponibile nel 2019. La data effettiva di lancio naturalmente dipenderà dai partner OEM e da quando saranno pronti per la commercializzazione.»

In che modo il futuro di Eisd si inserisce nell’offerta globale di arti grafiche di Kodak?

«È altamente improbabile che il settore della stampa possa passare a un’unica tecnologia in quanto ogni tecnologia risponde a diverse esigenze. I provider di servizi di stampa continuano ad affidarsi alle tecnologie tradizionali per produrre alte tirature, ma stanno cominciando a investire anche nelle soluzioni digitali che sono più adatte per le tirature più basse. Ed è proprio la combinazione di macchine da stampa analogiche e digitali che permette ai centri stampa di far crescere la loro attività e ottimizzare il loro lavoro.»

 

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C’è ancora tempo perchè sono aperte fino al 21 agosto le iscrizioni al concorso Printing Real Lives by Saxoprint.

Un concorso che offre un aiuto concreto a chi è disposto a mettersi in gioco e presentare la propria idea imprenditoriale a una giuria selezionata.

Per partecipare è sufficiente inviare la propria candidatura compilando un semplicissimo form e allegando il proprio progetto – in qualsiasi formato esso sia – sul sito dedicato all’iniziativa.

Una giuria popolare, composta dagli internauti, selezionerà una short list di nove progetti, che saranno poi valutati dalla giuria di qualità che decreterà i primi tre classificati.

Il primo classificato si aggiudicherà un premio in denaro di 5.000 euro, il secondo di 2.500 euro e il terzo di 1.500 euro, oltre alla creazione e stampa dell’immagine coordinata.

Per avviare un’attività è infatti necessaria anche un’identità aziendale: un logo e un’immagine coordinata. Per questo motivo Saxoprint farà realizzare per i tre vincitori anche lo studio grafico dell’immagine della neo nata azienda: Marco Lombardo, Massimo Nava e Marta Gentile, graphic designer professionisti coinvolti anche in qualità di giurati, studieranno le tre corporate identity. Il passo successivo sarà la stampa di tutti i materiali creati, per i quali Saxoprint metterà a disposizione un buono del valore di 2.000 euro al primo, di 1.000 euro al secondo e di 500 euro al terzo.

Qui il bando di concorso e tutte le informazioni necessarie per partecipare.

Durst: un progetto ambizioso per l’ampliamento del proprio headquarter

Christoph Gamper, CEO, durante la cerimonia di posa della prima pietra.

La cerimonia di posa della prima pietra del 26 maggio scorso ha dato ufficialmente il via ai lavori di costruzione del nuovo edificio che ospiterà l’esclusivo Innovation Centre, un moderno showroom e sarà sede della direzione centrale del Gruppo. Una struttura all’avanguardia, destinata a essere emblema dell’internazionalità di Durst.

Il progetto della nuova area, realizzato dagli architetti Patrik Pedò e Juri Pobitzer dello studio Monovolume, è stato ideato per integrarsi sia a livello architettonico sia funzionale con quella già esistente firmata dall’architetto Othmar Barth nel 1963. Pedò e Pobitzer si sono ispirati alla concezione originaria di Barth per dare vita a un’«ala» piatta che si libra leggiadra con una torre di sei piani che raggiungerà i 35 metri di altezza.

A connotare in maniera esclusiva la facciata del nuovo edificio, che sarà collegato direttamente alla sede storica, un design a pixel dalla forma organica, realizzato con elementi prefabbricati in calcestruzzo leggero. Questa speciale costruzione con motivo traforato, che richiama immediatamente il tema della fotografia e della stampa digitale, conferirà all’intero edificio una forte impronta identitaria. La perfetta integrazione tra la nuova struttura e quella già esistente permetterà lo svolgimento dei lavori di costruzione senza interrompere la consueta attività aziendale.

La nuova sede coprirà una superficie di 21.388 m2 a cui si aggiungeranno 2.800 m2 di spazio verde. È previsto l’impiego di 5.000 m3 di calcestruzzo, 430.000 kg di acciaio e 2.600 m2 di vetrate.

«Fedele alla sua tradizione di azienda familiare, nella quale ognuno ha lasciato la propria impronta, Durst è attualmente gestita dalla terza generazione. Una peculiarità che ha stimolato un costante processo di crescita. Nei prossimi decenni assisteremo all’evoluzione del Gruppo da specialista della stampa digitale su vari supporti a fornitore di soluzioni complete che vanno dall’acquisizione di immagini e dati fino alla stampa e alla decorazione di superfici, comprendendo la messa a punto di software proprietari per il workflow, lo sviluppo di inchiostri e la costante implementazione di servizi pre e post vendita. Una crescita a 360° che richiederà superfici sempre più ampie per dare spazio alla creatività e incontrare i nostri clienti, come potremo presto fare all’interno del nuovo building» ha dichiarato Christoph Gamper, CEO del Gruppo Durst.

Al via il tour Colours have the power di Ricoh

Una serie di appuntamenti durante i quali i fornitori di servizi di stampa potranno scoprire le potenzialità della stampa digitale e trovare la combinazione vincente per offrire ai clienti servizi innovativi.

La stampa digitale offre ai fornitori di servizi interessanti opportunità di crescita nell’ambito per esempio della personalizzazione delle applicazioni, dell’Interior Decoration o della stampa su tessuto. Il tour Colours have the power di Ricoh punta i riflettori sull’innovazione per mostrare agli stampatori come trovare la combinazione giusta di tecnologie, applicazioni e servizi per differenziarsi sul mercato.

I visitatori potranno accedere a un’area esperienziale in cui scoprire applicazioni innovative realizzate su differenti materiali con colori speciali come il bianco, il trasparente e il giallo neon. Dal punto di vista delle soluzioni di stampa saranno a disposizione dei partecipanti Ricoh Pro C7100X, Ricoh Pro L4100 e Ricoh Pro C5200S.

In ogni tappa del tour sarà possibile confrontarsi con i professionisti Ricoh per approfondire le più recenti innovazioni tecnologiche e capire in che modo possono aiutare a sviluppare nuovi servizi all’insegna della personalizzazione e dell’on demand.

«Vogliamo essere sempre più vicini alle esigenze del mercato» spiega Giorgio Bavuso, Direttore Production Printing di Ricoh. «Nel 2015 il roadshow All you need is print ha avuto un grande successo in termini di adesioni proprio perché abbiamo dato spazio alle applicazioni creando ambienti reali in cui tutto era stampato e personalizzato. Con questo nuovo tour, che in diverse tappe coinvolgerà anche alcuni nostri dealer production printing, Ricoh propone un viaggio nel mondo delle nuove tendenze della stampa digitale, dando evidenza a come la corretta combinazione di materiali, applicazioni e colori sia per gli stampatori la carta vincente per ampliare il proprio business».

Di seguito le prime tappe del tour:

Bologna 29-30 giugno

Torino 5-6 luglio

Firenze 22-23 settembre

Roma 29-30 settembre

Informazioni e modalità di iscrizione alla prima tappa sono disponibili qui.


 

Ghelfi Ondulati stampa sul cartone con HP PageWide T400S e T1100S

A sinistra Giuseppe Ghelfi, titolare, a destra Luca Simoncini, Responsabile Progetto Digitale di Ghelfi Ondulati.
A sinistra Giuseppe Ghelfi, titolare, a destra Luca Simoncini, Responsabile Progetto Digitale di Ghelfi Ondulati.

Italia Grafica è stata invitata da HP a visitare Ghelfi Ondulati, azienda con ottime posizioni nel mercato degli imballaggi in cartone ondulato, in Italia e all’estero. È tra le prime aziende al mondo che ha deciso di stampare gli imballaggi in digitale, affiancando queste nuove tecnologie alla flessografia presente in azienda da molti anni.

Chi non ha mai visto le macchine che producono il cartone ondulato non immagina la dimensione «gigantesca» dell’ondulatore, sia in lunghezza sia in larghezza, della macchina in continuo che sbobina il rotolo di carta, crea le ondulazioni (cannette), accoppia e incolla le varie parti che compongono il cartone, ottenendo un nastro continuo di spessori variabili (Wet-end), secondo le esigenze del prodotto da realizzare.

Il cartone incollato si trasforma in un lungo nastro, che entrando in un forno si asciuga, in modo da poterlo immediatamente tagliare in fogli, (Dry-end) che sono impilati sui bancali per poi trasferirli automaticamente nel magazzino dei semilavorati. Se il cartone non si è raffreddato non si può stampare in flessografia, pertanto è necessario lasciarlo in magazzino un tempo sufficiente per completare il processo di evaporazione dell’acqua, in modo da favorire la polimerizzazione delle resine e della colla. Anche il cartone ondulato stampato in digitale deve riposare prima di essere fustellato. Raffreddandosi, si ripristinano le caratteristiche meccaniche indispensabili per sopportare la pressione della fustella. Anche in questo caso il nastro è immediatamente tagliato passando da nastro a foglio, e subito dopo può essere trasformato nel reparto cartotecnico in un contenitore pronto all’uso.

Per ottenere un nastro di carta già stampato, di conseguenza, devono essere «gigantesche» anche le due tecnologie digitali HP (T400S e T1100S), che stampano la carta in bobine di differente larghezza, variando la larghezza da un minimo di 406 mm a un massimo di 2.794 mm, a seconda del modello di macchina scelto, utilizzando quattro colori (ciano, magenta, giallo, nero) applicando, appena ultimata la stampa, una vernice di protezione.

A sinistra Giuseppe Ghelfi, titolare, a destra Luca Simoncini, Responsabile Progetto Digitale di Ghelfi Ondulati.
A sinistra Giuseppe Ghelfi, titolare, a destra Luca Simoncini, Responsabile Progetto Digitale di Ghelfi Ondulati.

La storia di Ghelfi Ondulati

Nasce nel 1952 con la missione aziendale focalizzata alla produzione d’imballi che devono contenere e proteggere prodotti alimentari (vassoi ortofrutta, scatole automontanti, wrap around, americane, ecc.). Imballaggi che devono essere resistenti a carichi e temperature che variano considerevolmente in merito alle condizioni di utilizzo (frigoriferi) e alla località (temperature del Nord Europa, Africa ecc.). Le esigenze di mercato richiedono di rendere più accattivante il prodotto e di «vestirlo con maggior accuratezza» stampando immagini, fondi sfumati, testi, texture… in modo da attirare l’attenzione del consumatore. Per raggiungere questi obiettivi l’azienda si aggiorna costantemente nei vari processi produttivi, dalla progettazione e produzione di nuovi imballi, alla cartotecnica (fustellatura e piega incolla), con conseguente implementazione della stampa digitale. Sul sito si possono vedere le tipologie d’imballi prodotti da Ghelfi Ondulati: alcuni sono progettati e brevettati dall’azienda, allo scopo di ottenere un consistente risparmio di materia prima, e di poterli impilare uno sull’altro supportando pesi notevoli senza cedimenti durante il trasporto e lo stoccaggio.

La scelta del digitale dovrà far crescere il fatturato, visto l’importante investimento, ma ancor più soddisfare le richieste del mercato che sono in aumento per le piccole/medie tirature, la richiesta di personalizzazione con dati variabili utilizzando testi e immagini, stampando codici a barre personalizzati per la tracciabilità del prodotto, per esempio, e implementare sistemi allo scopo di evitare (o almeno ridurre) la contraffazione, ed essere in grado di produrre in tempi estremamente ridotti tra il ricevimento dell’ordine e la consegna dell’imballo.

La scelta della tecnologia

Qualità, ambiente, ecologia, sono il focus di Ghelfi da sempre, di conseguenza la ricerca del partner tecnologico di stampa digitale doveva prima di tutto essere in grado di mantenere le linee guida prefissate. Per mantenere un ambiente salubre, «dove ci si vive tutti i giorni, lavorando su più turni permette a tutti noi (operai impiegati e dirigenti) di vivere meglio» ci informano dalla direzione. Dopo varie verifiche, HP con le tecnologie PageWide ha corrisposto alle esigenze di Ghelfi. Per la stampa utilizza inchiostri pigmentati, leganti (Bonding Agent) e vernici a base acqua, con limitati VOC.

Le tecnologie di stampa digitale HP PageWide, modelli T400S e T1100S, installate in Ghelfi Ondulati.
Le tecnologie di stampa digitale HP PageWide, modelli T400S e T1100S, installate in Ghelfi Ondulati.

Sono poche le aziende produttrici di stampanti digitali che sono in grado di stampare su larghezza della bobina di questo tipo garantendo una notevole capacità produttiva, di conseguenza la scelta di HP è stata favorita. Nel settore della stampa, HP ha posizionato la stampa digitale accanto alla rotooffset e macchine offset a foglio di grande formato nelle aziende grafiche che stampano libri, riviste, giornali ecc.

Vari test realizzati e in corso dimostrano che le tecnologie devono essere in grado di soddisfare non solo quanto precedentemente elencato, ma di essere in grado di stampare su carte «critiche» che sono tipiche degli imballi, con differenti e notevoli grammature e devono essere versatili per i vari cambi in merito alle esigenze delle differenti commesse, garantendo un’elevata velocità di produzione. Ecco alcuni dati tecnici che distinguono i due modelli di stampanti PageWide HP con alimentazione continua a bobina con carta in fibra naturale e riciclata, patinata e non patinata.

Modello T400S

Larghezza bobina carta: da 406 fino a 1.067 mm

Grammatura carta: da 60 fino a 350 g/m2

Velocità di stampa: 11.640 m2/ora, alla velocità di 183 metri al minuto

Modello T1100S

Larghezza bobina carta: da 1.016 fino a 2.794 mm

Grammatura carta: da 80 fino a 400 g/m2

Velocità di stampa: 30.600 m2/ora, alla velocità di 183 metri al minuto

Una tecnologia così complessa coinvolge altri partner

Stampanti digitali di questo tipo sono molto complesse poiché non sono semplici stampanti a colori, ma devono garantire un costante mantenimento della qualità di stampa, un’ottima gestione del colore in tutta la produzione evitando gli scarti di avviamento, effettuare cambi bobina, attuare un controllo sulla tiratura ecc. Stampanti di queste dimensioni gestiscono tramite «torri» piene di computer, svariati software e innumerevoli monitor (uno per ogni punto di controllo) e una serie batteria di «teste di stampa» posizionate sui gruppi che stampano i vari colori, segnalando anche le minime difettosità che una di esse potrebbe avere in fase di produzione. Tecnologie di stampa nate per integrare altri componenti forniti da partner che hanno competenze ed esperienze specifiche nelle varie aree. Tra questi citiamo: Harris & Bruno, ColorGate, torres, Weko.

Le tecnologie di stampa digitale HP PageWide, modelli T400S e T1100S, installate in Ghelfi Ondulati.
Le tecnologie di stampa digitale HP PageWide, modelli T400S e T1100S, installate in Ghelfi Ondulati.

Partner che hanno studiato e realizzato i raffinati sistemi di carico della carta in bobina, «l’aspirapolvere» che rimuove il pulviscolo della carta prima di essere stampata, i rulli di trascinamento che devono mantenere alla massima velocità la perfetta posizione del nastro di carta, i «rulli ballerini» che garantiscano la costante tensione del nastro di carta, un gruppo stampa specifico che applica il «legante incolore/bonding agent» solo nei punti dove si posizionerà l’inchiostro. E anche il software per la calibrazione e il mantenimento in tiratura dei colori (Cmyk), un gruppo stampa con cilindro anilox posizionato in «post stampa» che applica su tutto il nastro di carta una vernice protettiva, un sistema rapido di asciugatura a raggi infrarossi e aria calda per evitare anche la controstampa, e un ribobinatore del nastro di carta appena stampato.

Ogni «pezzo», una specifica funzione

Il cuore della tecnologia sono le teste di stampa a getto d’inchiostro termico scalabile, con una risoluzione di stampa di 1.200 ugelli per linea/pollice. Sono collocate in alloggiamenti sistemati sulla parte superiore della macchina e distinte per ogni singolo colore (Cmyk e agente legante) e sono facilmente accessibili dall’operatore per la manutenzione, la pulizia e l’eventuale sostituzione. Le cartucce (teste di stampa) sono prodotte e fornite da HP e in caso di difettosità devono essere sostituite con altre nuove, già caricate precedentemente di inchiostro, in modo che, ultimata la sostituzione, l’inchiostro inizi a fuoriuscire immediatamente, evitando fermi macchina prolungati e scarti di stampati qualora la cartuccia fosse vuota, richiedendo un certo tempo per il suo riempimento in macchina.

 

Materiali di consumo. I contenitori degli inchiostri, del legante, e della vernice sono fusti con capacità da 200 a 1.000 litri, a seconda del modello di macchina. L’unico prodotto che può essere acquistato anche da altri fornitori è la vernice, tutto il resto è fornito da HP.

Anilox. Un sistema di pompe preleva la vernice comprimendola in un contenitore (camera racla) che aderendo perfettamente al cilindro anilox garantisce un’uniformità di applicazione. Il cilindro anilox è di alluminio, ricoperto da materiale ceramico con le celle «scolpite dal laser». Ogni tipologia di anilox, a seconda della forma della cella e della sua profondità, deposita la quantità di vernice richiesta per i vari tipi di carte.

Impostare e mantenere una corretta gestione del colore: argomenti importanti da considerare per tutte le tecnologie di stampa sia amatoriali, sia professionali. Impensabile non affrontare in modo serio e rigoroso l’argomento su stampanti digitali di questo tipo, pensando che si possano differire le conoscenze su profili colore dei file, per la linearizzazione e calibrazione delle periferiche, motivando il solo fatto che «a cosa serve, tanto si stampa su cartone». Un colore stampato sull’imballo non può essere molto differente da quello delle confezioni collocate al suo interno. Argomento, la riproduzione fedele del colore, che si deve affrontare e gestire con competenza specialmente in presenza di colori spot Pantone, che molte aziende utilizzano e che chiedono la riproduzione tramite la simulazione in Cmyk.

Avendo a disposizione software specifici, che permettono di riprodurre al meglio questi colori avendo a disposizione solo i colori di quadricromia, si ha la possibilità di ridurre tempi e costi per la sostituzione dei colori e per i lavaggi delle macchine da stampa.

Un’attenta gestione del colore permette l’allineamento e la riduzione dei rischi in tutto il flusso di prestampa. Software impostati correttamente sulla stazione dell’operatore che riceve il file, una valutazione su un monitor calibrato, la prova colore che dimostra con le scale di controllo che non è una bozza a colori, la stampante digitale costantemente controllata da personale competente… riducono i tempi di avviamento, i rischi di rifacimenti e soprattutto le contestazioni.

I vantaggi e i benefici di un flusso allineato sul colore permettono di affrontare anche le esigenze dei clienti più rigorosi, anche quando il cliente vuole vedere realmente come sarà stampato il suo imballo, che non sempre si realizza utilizzando carte bianche. Per esempio utilizzando una carta kraft (marrone chiaro) i colori saranno modificati in base alla gestione del colore permettendo la valutazione del reale risultato che si avrà in tiratura, ma ancor di più, in breve tempo si potrà realizzare un prototipo che, se approvato, sarà utilizzato come riferimento per la tiratura.

Risparmio d’inchiostro e miglior pulizia in stampa

Non approfondiamo in quest’articolo l’argomento save ink, che sembra passato di moda, ma al contrario è bene ricordare che chi lo applica in stampa specialmente su substrati di questo tipo, non solo ha un risparmio di inchiostro, ma ottiene una stampa più pulita, meno impastata, e con gli inchiostri dosati correttamente a vantaggio di un miglioramento dei dettagli sul contrasto, per esempio sulle immagini scure, evitando di intervenire manualmente sul file. Le tecnologie HP, pilotate dal software di ColorGate, gestiscono il flusso colore, e possono simulare la stampa di retini FM (modulazione di frequenza) e AM (modulazione di ampiezza). Il retino scelto fa la differenza sul risultato di stampa, specialmente se ci sono immagini con colori molto delicati, morbide sfumature ecc.

Nei casi in cui il cliente è abituato a vedere sulle «scatole» i punti di retino, se è stato stampato precedentemente in flessografia o in stampa offset utilizzando il retino AM, è possibile simularlo.

Un futuro per il grafico creativo

L’imballo alimentare non è solo un contenitore di cartone privo d’identità, diventerà sempre più un veicolo di comunicazione in tutta la filiera di distribuzione. L’esempio che tutti hanno sott’occhio sono i platò di mele. Le mele sistemate ordinatamente nell’imballo stampato dove sono ben visibili tutte le informazioni indispensabili per la tracciabilità del prodotto, (produttore, sede del magazzino, indirizzo, codice a barre, ecc.) passano dal produttore al consumatore senza nessun’altra operazione. Appena il bancale arriva in negozio, al supermercato, e anche al mercato rionale, i platò sono sistemati tali e quali sul banco di vendita. Molti altri prodotti seguono questo esempio, biscotti, patatine, pasta, vini, birre… per fragilità del peso del prodotto, ma anche per evitare di perdere tempo per aprire la scatola e per collocare il contenuto sullo scaffale.

L’acquirente attirato dall’imballo che per dimensione comunica meglio il suo contenuto, al contrario per esempio di una sola bottiglia, individua facilmente il prodotto e/o il produttore. Una bella scatola in molti casi favorisce l’acquisto dell’intero contenuto invece di un solo prodotto. Il cartone ondulato con queste tecnologie apre spazi professionali per l’attività del grafico creativo, che inevitabilmente deve acquisire o perfezionare le sue competenze su questi argomenti, in merito a fattibilità della sua idea e alle normative richieste per gli imballi.

Sfruttare i Social Media specifici per il Business to Business

Come i social media possono aiutare i professionisti del settore vendite nell’essere più efficaci nelle loro campagne sui social? Ecco alcuni esempi e strategie affinché le imprese possano agevolarli e supportarli nella loro attività di vendita fornendo anche alcuni consigli per incrementare l’efficacia nella produzione di depliant, brochure e altro materiale basato su supporto cartaceo.

I media digitali consentono a ogni professionista del settore vendite forme di comunicazione avanzate con le proprie reti di relazioni. Questo aspetto è decisamente importante – se usato strategicamente – per comunicare e far percepire il fattore differenziante di ogni professionista; per “differenziante” si intende quel fattore che rende unico e distinguibile un professionista rispetto agli altri, mettendone in evidenza, e incrementandone, l’autorevolezza e la reputazione.

L’essere percepito nella propria unicità e specificità rispetto ai competitor rende il professionista più efficace e paradigmatico nelle sue attività di comunicazione persuasiva, consentendogli in questo modo di esaltare le proprie capacità e il proprio carisma personale e professionale: ciò gli fornisce una maggiore forza nella chiusura delle transazioni.

Gli strumenti di LinkedIn per comunicare valore, visione del mercato e reputazione

Per questo motivo ogni professionista del settore vendite deve utilizzare i social network per il B2B – in particolare LinkedIn – per mettere in evidenza e far percepire il proprio stile di vendita che lo differenzia dai competitor: e il proprio stile differenziante può essere veicolato in due modi, attraverso il professional branding e attraverso il personal branding.

Il professional branding gli permette di trasmettere sia la propria preparazione professionale, sia la propria visione (vision) del mercato. Come? Semplicemente pubblicando a cadenza il più possibile giornaliera almeno un contenuto o aggiornamento professionale attraverso la finestra Condividi un Aggiornamento. I contenuti possono essere condivisioni di articoli di giornale sull’andamento del mercato di settore, link a libri e pubblicazioni, link a brochure aziendali e a schede di prodotto. Questo strumento farà in modo di dare visibilità dei materiali condivisi ai membri della rete professionale (network di contatti) di LinkedIn con più affinità nei confronti del contenuto.

Questa finestra è importante poiché consente di tenere aggiornata la propria rete di contatti – il proprio network professionale – e di fare in modo di mostrare alla propria rete di contatti quanto si è preparati sul proprio settore.

Inoltre – sempre tramite LinkedIn – un professionista del settore vendite può scrivere degli articoli come se fosse in un blog. Mi riferisco in questo caso LinkedIn Publisher, comunemente detto LinkedIn Pulse, lo strumento di Blogging che LinkedIn mette a disposizione gratuitamente a ogni professionista presente sul social network.

La scrittura e la condivisione di aggiornamenti professionali permette a ogni professionista del settore vendite di far emergere in modo distintivo la propria professionalità, la propria vision del mercato, il proprio approccio alla professione.

Ma come vengono usate queste informazioni dai clienti dei professionisti del settore vendite per comprenderne il valore professionale?

Spesso mi sento chiedere perché un professionista del settore vendite dovrebbe “investire” tempo e risorse personali per svolgere questa attività di aggiornamento professionale su LinkedIn, quando il tempo è poco, e perché non si riesce ad avere una precisa percezione dei benefici di queste attività di veicolazione delle informazioni.

La percezione da parte dei propri aspiranti clienti

Sappiamo che quando un agente di vendita contatta un cliente su LinkedIn, oppure su un altro social network o anche al telefono, il contattato quasi sempre ricerca in tempo reale tramite Google o LinkedIn informazioni su quella specifica persona per capire se quel professionista può dargli un valore aggiunto.

Oltre a dare una occhiata al profilo professionale, i clienti possono osservare e determinare se le dichiarazioni di intenti sia effettivamente messa in pratica nella prassi lavorativa oppure no.

Tramite il pulsante Visualizza Attività Recenti, il cliente target della telefonata o della forma di contatto può vedere cosa fa nella sua attività lavorativa quotidiana chi l’ha contattato, quali relazioni instaura in rete, come coltiva le sue relazioni, facendosi così un’idea precisa del suo modus operandi. E attraverso questa rapida occhiata (che costa pochi secondi), il cliente può farsi un’idea dell’efficacia del professionista del settore vendite che sta cercando di instaurare un contatto con lui.

Già da questi due fatti emergono alcuni dati utili: il professionista dà un’efficace prova sociale (Social Proof) del suo professional branding sia in termini quantitativi (quante azioni ha effettuato) sia in termini qualitativi tramite la qualità della sua conversazione?

Al contrario, un professionista del settore vendite che si presenta con nessuna attività agli occhi del proprio aspirante cliente, non fa un’impressione positiva.

Ora veniamo al come e cosa

Quali contenuti condividere? Professional branding Vs identità e sfera individuale (ovvero personal branding).

È indubbio che un contesto professionale implica che ci si debba concentrare sulla produzione di attività professionali e su una condotta e su un regime comunicativo atto alla produzione di beni, prodotti e servizi. Ma è altrettanto indubbio che nel mondo del lavoro è fondamentale utilizzare la propria intelligenza creativa che si nutre di passioni, di energie creative e di aspetti che superano i classici confini della “mera” produzione.

Per questo motivo è bene alternare, in un contesto professionale, aspetti legati sia alla sfera professionale (che devono essere prevalenti), sia aspetti legati all’emotività e talvolta, eccezionalmente, alla sfera del privato: paradossi, battute di spirito e altri aspetti ludici fanno anch’essi parte della vita professionale e della maturità di una persona, e la si misura su quanto egli sappia creare un equilibrio bilanciato di aspetti legati alle due sfere. Va subito detto che è una pratica considerata fastidiosa il condividere informazioni relative alla sfera privata su LinkedIn (LinkedIn non è un social per condividere foto di gattini, esiste Facebook e Instagram per questo). Ma va anche detto che la scelta delle foto, del materiale di comunicazione visiva, del registro comunicativo consentono di comunicare il proprio approccio umano, proprio come fa Massimo Marucci, uno dei più famosi professionisti del settore vendite che usa in modo strategico LinkedIn come strumento di comunicazione sugli aspiranti clienti. Egli ha saputo usare i Social Network come strumento di trasmissione della propria reputazione professionale e del proprio Professional Branding, e utilizza le immagini in modo molto creativo e impattante, trasmettendo nella propria reputazione professionale, anche la propria identità personale, la propria creatività e passione per il proprio lavoro, che si percepisce anche dal proprio stile nel commentare e nei contributi degli altri, e dal modo di interagire con le persone.

LinkedIn consente ai professionisti di capire quanto sia efficace la propria attività di comunicazione attraverso degli strumenti specifici che forniscono loro dei feedback ne I miei aggiornamenti nel quale si vedono le proprie attività recenti e quanti like e commenti si sono ricevuti. Possiamo quindi non solo vedere quali attività abbiamo pubblicato su LinkedIn, ma anche comprendere quali di queste ha generato più interesse nel nostro network professionale. E possiamo naturalmente generare più occasioni di dialogo e di contatto con il nostro network professionale.

Creare forme più strategiche di comunicazione trans-mediale, ovvero tra media cartacei e media sociali

Come può un’impresa fare in modo che i suoi depliant e le brochure siano efficaci per la forza vendita anche nella comunicazione su media digitali?

Le potenzialità di LinkedIn e dei Social Network per il Business to Business non sono più solo un’opportunità da cogliere, ma sono ormai uno strumento imprescindibile della strategia di marketing di ogni impresa operante nel B2B.

Le imprese devono fornire sia gli strumenti, sia le strategie per agevolare i professionisti del settore vendite.

Gli strumenti più pregiati per la vendita rimangono naturalmente quelli cartacei che – data la preziosità della carta come materiale di pregio – connotano il messaggio veicolato di una valenza di autorevolezza soprattutto ora che vi sono i media digitali.

Nelle brochure cartacee è fondamentale avere sempre un richiamo al profilo LinkedIn del professionista del settore vendite, in modo tale che i clienti acquisiti si leghino al suo profilo. È fondamentale nelle brochure cartacee segnalare e mettere in risalto il fatto che il professionista del settore vendite sta usando LinkedIn come strumento di comunicazione e aggiornamento professionale.

Consiglio inoltre di riportare la stessa fotografia, sulla brochure cartacea e su LinkedIn, del professionista, in modo tale da evitare distorsioni e dare un’immagine forte e univoca.

Condividere su LinkedIn i contenuti più strategici per gli interessi aziendali

Ma oltre agli strumenti cartacei è necessario considerare LinkedIn per ciò che è: un network di condivisione di contenuti. La scelta è quindi un aspetto molto importante, che non può essere lasciato al caso. Il professionista del settore vendite non può e non deve essere lasciato solo nella scelta dei contenuti aziendali da condividere su LinkedIn, anche e soprattutto se esso è un freelance e/o pluri-mandatario. Lasciarlo solo implica infatti alcuni rischi. Il primo è che il professionista non pubblichi nulla, e rimanga quindi muto, decrementando in questo modo la propria percezione e autorevolezza; ciò può accadere sia per ragioni di tempo, sia per ragioni di insicurezza sull’efficacia delle fonti da lui trovate. Il secondo rischio è che il professionista pubblichi e condivida articoli in modo non sistematico, lasciando mesi di vuoti. Il terzo è che inizi a pubblicare in modo non coerente e non allineato con le esigenze della propria target community di aspiranti clienti.

Le imprese possono aiutare in modo notevole i professionisti del settore vendite dando loro ogni settimana una rassegna stampa di contenuti da pubblicare, in modo tale da suggerire ai professionisti dei contenuti, rassicurarli sulla loro validità ed efficacia, ed evitare dei buchi informativi.

Come creare la rassegna stampa dei contenuti da pubblicare

La scelta dei contenuti da fornire alla rete di vendita è una fase molto strategica per le imprese e non va fatta in modo approssimativo. Dobbiamo infatti ricordarci che i professionisti del settore vendite utilizzeranno quei contenuti per incrementare il loro brand professionale e che incrementando il loro brand professionale, incrementeranno anche quello dell’impresa.

Per questo motivo è bene che le imprese forniscano due tipologie di contenuti: relativi alla propria impresa e relativi al mercato di riferimento.

Per contenuti relativi all’ impresa intendiamo non soltanto le brochure e le schede prodotto, ma anche tutti i contenuti di blog, guide, e altri materiali che aiutino i consumatori a usare al meglio i prodotti. Questi materiali sono molto utili ai professionisti del settore vendite in quanto consentono loro – non tanto di «spingere in modo invasivo» i prodotti – quanto di fornire una forma di consulenza persistente online tramite LinkedIn, incrementando la loro percezione di professionalità come venditori e incrementando nel contempo il prestigio dell’impresa. Per i contenuti relativi al mercato di riferimento si intende l’attività di fornire alla propria rete di vendita contenuti di terze parti relativi al mercato in cui opera l’impresa. Questa tipologia particolare di contenuti – essendo di terze parti – ha il mutuo beneficio di essere di natura neutrale ed esente da conflitti di interesse, e di suscitare curiosità e interesse da parte del prospect proprio perché legata alle informazioni sul mercato.

Per scegliere i contenuti consiglio di usare un approccio vagamente ispirato alla metodologia S.O.S.T.A.C. che si basa sul fornire contenuti sulla situazione del mercato attuale e su come i prodotti aziendali possono incrementare e migliorare l’analisi dei contenuti fondamentali. Questi contenuti risponderanno in questo modo al bisogno di evoluzione delle imprese e renderanno il rapporto con i professionisti del settore vendite più proficuo ed efficace.

Imballaggi sostenibili e resistenti, grazie ai gusci d’uovo

I gusci delle uova sono degli imballaggi straordinari, proteggono il contenuto e allo stesso tempo si aprono facilmente, senza dimenticare che sono perfettamente biodegradabili. Un gruppo di ricercatori ha pensato di utilizzarli per migliorare le caratteristiche tecniche delle bio-plastiche, sempre più spesso impiegate per produrre imballaggi sostenibili.

di Elisa Brunelli

All’Università di Tuskegee (Alabama, Stati Uniti) i ricercatori del team guidato dal dottor Vijaya Rangari hanno frammentato i gusci d’uovo in nano-particelle e le hanno aggiunte a una miscela di polimeri, così da ottenere materiali plastici resistenti e flessibili. Rangari ha presentato questa ricerca al meeting della American Chemical Society di quest’anno, spiegando il principio con cui è stato messo a punto questo innovativo materiale: «Sviluppare nuovi materiali plastici sostenibili e con buone caratteristiche tecniche è una delle priorità del nostro gruppo di ricerca, a questo scopo abbiamo utilizzato scarti di uova per creare una nuova classe di bio-plastiche. I gusci delle uova sono stati polverizzati con una tecnica a base di ultrasuoni in componenti microscopiche che poi sono state sono mescolate in una speciale miscela di bio-plastiche che è stata sviluppata appositamente all’interno dei nostri laboratori. Queste particelle di guscio d’uovo» prosegue il ricercatore «grandi nell’ordine dei nanometri, aggiungono resistenza al materiale e lo rendono più flessibile di altre nano-plastiche presenti attualmente sul mercato. Crediamo che queste caratteristiche, insieme alla biodegradabilità, potrebbero rendere questo materiale a base di nano-particelle di carbonato di calcio (la componente principale dei gusci d’uovo) una soluzione alternativa per un creare una nuova generazione d’imballaggi». La nuova bio-plastica è ancora in fase di sviluppo, ma le prospettive sono promettenti poiché, oltre a essere tecnicamente adatta a sostituire le plastiche tradizionali nel settore del packaging, è anche un materiale completamente biodegradabile che può essere riciclato nella raccolta differenziata insieme agli altri scarti organici, riducendo così in maniera sensibile la quantità di rifiuti non biodegradabili rilasciati nell’ambiente.

Bio-plastiche e nano-particelle

L’impiego di biomateriali nell’ambito del packaging è in rapida ascesa da diversi anni. Una necessità che nasce in primo luogo dal mercato, poiché sono per primi gli stessi consumatori a sentire la necessità di avere prodotti con packaging sostenibili, al posto dei classici imballaggi in plastica tradizionale, non biodegradabile. Un trend decisamente in positivo, supportato ultimamente dallo sviluppo di nuove interessanti tecnologie, che rende questi prodotti ancora più accessibili ai fornitori di imballaggi plastici e ai produttori di imballaggi. Fino a qualche anno fa le bio-plastiche potevano essere considerati dei materiali di nicchia, materiali promettenti, ma a causa del prezzo e delle performance tecniche poco competitivi rispetto alle plastiche tradizionali. Le strade seguite dagli specialisti dei materiali per poter migliorare le prestazioni di queste plastiche sono state, negli anni, diverse. Di recente per migliorare le prestazioni delle bio-plastiche si è provato a mescolarle con altri materiali più resistenti, ossia produrre materiali detti compositi, ovvero composti da due materiali diversi con caratteristiche tecniche differenti. I compositi sono generalmente costituiti da una matrice che preserva le caratteristiche principali del materiale di partenze dove sono disperse delle particelle. I risultati più promettenti nell’ambito delle plastiche sono stati ottenuti in particolare con nano-particelle a base di composti inorganici, che sono dotate di caratteristiche meccaniche completamente differenti. Le bio-plastiche, come del resto le plastiche tradizionali, sono materiali a base di carbonio con caratteristiche tecnologiche ben definite. Nano-particelle a base di ossidi di metallo, come per esempio il carbonato di calcio la principale componente dei gusci d’uovo oggetto di studio, hanno invece caratteristiche di resistenza tipiche dei metalli. Nel laboratorio del dottor Ragani hanno pensato dunque di unire la flessibilità della plastica alla resistenza meccanica del carbonato di calcio per arrivare a ottenere un materiale particolarmente versatile adatto a costituire diverse tipologie di packaging.
Bio-plastiche e nano-particelle

Verso un imballaggio sostenibile

Il vantaggio di questo tipo di materiale sarebbe quello di ottenere un packaging efficiente, ma anche lanciare sul mercato degli imballaggi un prodotto sostenibile al 100%. Le bio-plastiche impiegate nello studio, infatti, sono degradabili, ma sarebbe meglio dire compostabili, così come il carbonato di calcio e quindi il materiale risultante, così come l’imballaggio derivato, potrebbe essere facilmente riciclato nella frazione compostabile. L’impiego di queste bio-plastiche inoltre avrebbe un altro enorme vantaggio in termini di sostenibilità: i polimeri utilizzati nello studio derivano da risorse agronomiche, ossia risorse rinnovabili. Un’alternativa ecologica alle comuni plastiche derivate dal petrolio, delle quali annualmente vengono prodotte 300 milioni di tonnellate, utilizzando petrolio o altri combustibili fossili e che richiedono secoli prima di decomporsi. Inoltre, le plastiche, se vengono bruciate, contribuiscono in modo significativo all’incremento del diossido di carbonio (CO2), uno dei più potenti gas serra immessi dalle produzioni umane in atmosfera.

Quando si parla di bio-plastiche?

Non esiste una definizione univoca di bio-plastica: il termine si può riferire a plastiche realizzate a partire da materie prime vegetali (mais, barbabietola o amido di patata), oppure a polimeri biodegradabili; caratteristiche non sono sempre correlate. Un biopolimero può essere di origine petrolchimica ed essere comunque adatto al compostaggio, ma può anche derivare da risorse vegetali ed essere resistente alla degradazione microbica. La definizione più diffusa e accreditata è quella dell’European Bioplastics Association, un’organizzazione che riunisce insieme i più grossi produttori di bio-plastiche, che definisce biopolimeri “tutti quei polimeri derivati da risorse rinnovabili (bio-based) o che siano biodegradabili e compostabili (secondo la norma EN 13432)”. I due polimeri impiegati nello studio sono due tipologie di plastiche che possiedono queste caratteristiche: i PLA non solo derivano da risorse agronomiche rinnovabili, ma sono anche biodegradabili quindi non persistono nell’ambiente come le comuni plastiche. Un altro polimero, il PBAT deriva invece dal petrolio ma è biodegradabile.

Bibliografia

CxF: caratterizzare, definire, scambiare e stampare un colore speciale

Nel formato CxF sono contenute molte informazioni tra cui la curva di riflessione spettrale del colore. Questa è ottenuta mediante lo spettrofotometro che ha la capacità di misurare la luce riflessa (trasmessa) dal colore scomponendola in diversi intervalli dello spettro visibile; questi sono i dati spettrali e vengono anche chiamati «impronta digitale» del colore stesso.
Nel formato CxF sono contenute molte informazioni tra cui la curva di riflessione spettrale del colore. Questa è ottenuta mediante lo spettrofotometro che ha la capacità di misurare la luce riflessa (trasmessa) dal colore scomponendola in diversi intervalli dello spettro visibile; questi sono i dati spettrali e vengono anche chiamati «impronta digitale» del colore stesso.

I colori speciali sono largamente impiegati in ambito packaging e poiché sono resi in stampa senza separazione in quadricromia o esacromia, è fondamentale che la loro definizione sia precisa e inequivocabile. Il ricorso alle librerie Pantone o ad atlanti colore non ha mai eliminato ogni possibile problema dal flusso di produzione. Ecco perché è nato lo standard CxF, che definisce il colore ricorrendo alle coordinate cromatiche L*a*b* e alla curva di riflessione spettrale misurata con uno spettrofotometro.

Il CxF (Color eXchange Format) nasce nel 2000 in casa GretagMacbeth; dopo l’acquisizione da parte di X-Rite viene creato un sito Web dove sono disponibili molte informazioni che hanno aiutato a creare cultura e a far conoscere le potenzialità del CxF. Da allora si sono susseguite diverse versioni e nel 2015 il CxF è diventato lo standard ISO 17972-1:2015 con il titolo «Graphic technology – Colour data exchange format (CxF/X)». In pratica la norma si compone di quattro parti che mirano a regolamentare tutto quanto è necessario per caratterizzare, definire, scambiare e stampare un colore speciale.

Come spesso succede, l’adozione di uno standard da parte del mercato richiede tempo e anche per il CxF la strada da percorrere è ancora tanta soprattutto per i fornitori di soluzioni software. Osservando i lavori della comunità scientifica che opera nel settore grafico e leggendo le riviste tecniche, c’è la certezza che il formato si affermerà in ambito produttivo per due motivi:

  • la cultura del colore si sta diffondendo sempre più e con essa l’adozione degli strumenti di misura come gli spettrofotometri. Questo sta contribuendo a creare consapevolezza, lungo tutta la filiera, della necessità di eliminare qualsiasi ambiguità nella definizione del colore ricorrendo a un metodo scientifico di misurazione per abilitare un interscambio sicuro e semplice.
  • È basato su XML, un linguaggio di markup aperto e ampiamente utilizzato in molti ambiti.

Il settore del packaging e Atif: le parole di Sergio Molino

Uno dei settori maggiormente interessati al CxF è quello del packaging; proprio per questo Atif, associazione italiana per la flessografia, ha attivato un Comitato di studio sullo standard che a breve pubblicherà un documento a uso di tutti gli associati.

«Atif ha deciso di approfondire il tema del CxF raccogliendo le istanze che provenivano dalle aziende grafiche a loro volta sollecitate dai brand owner che hanno colto il valore intrinseco di una tecnologia capace di abilitare la comunicazione del colore in modo scientifico e in grado di eliminare incertezze e fraintendimenti» ci spiega Sergio Molino, coordinatore gruppi di lavoro comitato tecnico di Atif.

«Infatti se si pensa al flusso di produzione di uno stampato dove sono impiegati dei colori speciali, sono tre le fasi in cui il CxF può giocare un ruolo importante: in prestampa dove la definizione del colore viene acquisita mediante il file CxF, dai produttori di inchiostro che formuleranno il colore sulla base delle informazioni del CxF, dagli stampatori che dovranno stampare «in tolleranza» il colore richiesto e fornito in CxF.

«Ad oggi nelle aziende italiane l’adozione di questo standard ISO è agli inizi ma all’estero sono già parecchi i gruppi internazionali che lo hanno inserito nel proprio flusso di produzione. Considerando che il settore del packaging in Italia ha una quota rilevante di export, è fondamentale per le nostre aziende approcciare fin da subito questo tema che sempre più comparirà all’interno dei capitolati di fornitura imposti dai clienti.

«Un aspetto importante del lavoro del Comitato Atif ha riguardato il grado di adozione del CxF all’interno dei software di prestampa e questo è stato un elemento controverso a tal punto che abbiamo anche dovuto togliere il capitolo relativo dal documento. Infatti allo stato attuale sono pochissimi i programmi che hanno la capacità di interpretare il formato rispettando quanto specificato dalla norma ISO; inoltre abbiamo avuto anche qualche problema ad avere delle risposte esaustive da parte delle software house, segno che l’argomento è troppo recente per una sua diffusione nei prodotti.

«La norma ISO 17972-1:2015 si compone di più parti; a livello di normazione la parte 4 (CxF/X-4) è definita e pubblicata, però, data la sua natura tecnica che descrive le modalità di scambio dei dati di caratterizzazione per i colori speciali, è abbastanza complicata e per questo manca ancora una implementazione completa nei software. Nella parte 2 vengono descritte i protocolli e le modalità di definizione delle chart per l’acquisizione dei colori per i device tipo scanner affiancandosi alla norma ISO 12641-1:2016 Graphic technology — Prepress digital data exchange — Colour targets for input scanner calibration.

«Nella parte 3 della norma sul CxF/X vengono definiti i dati per le chart relative ai device di tipo printer. Essenzialmente si fa riferimento alla costruzione e definizione di tutti i metadati delle chart per le calibrazione dei diversi tipi di device.

Da ultimo vorrei sottolineare che il file CxF/X può essere archiviato e caricato nei software di controllo qualità per una verifica della tiratura e della fedeltà cromatica. Per esempio i software di controllo qualità della X-Rite sono in grado di interpretare un file CxF/X e usarlo come riferimento per le misurazioni successive.»

Dentro al DOC.09
Il documento sul CxF che Atif sta completando cerca di rendere chiaro e comprensibile anche al profano un argomento abbastanza complicato, poiché la norma sostanzialmente è una definizione di un protocollo di comunicazione software tra programmi informatici. Nel documento si è cercato di dare un’informazione quanto più discorsiva possibile spiegando lo scopo di questa norma, e utilizzando due programmi oggi disponibili, si è mostrato un esempio di procedura per la creazione di un file CxF/X, e il suo utilizzo in alcuni flussi operativi che si possono presentare sul campo.
Il documento è strutturato in undici capitoli dove vengono spiegati i diversi concetti con, dove possibile, esempi di utilizzo e realizzazione di file CxF/X.

La leggenda metropolitana dei 72 dpi

L’immagine in alto è sostanzialmente a basse frequenze, quella in basso invece ha diverse parti ricche di alte frequenze. Entrambe sono state portate a 72 ppi nei riquadri sulla destra, ma mentre quella in alto non evidenza grossi artefatti di ingrandimento quella in basso tende a “sgranare” con facilità. Per questo è opportuno mantenere risoluzioni di output più elevate (a parità di dimensioni fisiche) per le immagini con dettagli sottili.
L’immagine in alto è sostanzialmente a basse frequenze, quella in basso invece ha diverse parti ricche di alte frequenze. Entrambe sono state portate a 72 ppi nei riquadri sulla destra, ma mentre quella in alto non evidenza grossi artefatti di ingrandimento quella in basso tende a “sgranare” con facilità. Per questo è opportuno mantenere risoluzioni di output più elevate (a parità di dimensioni fisiche) per le immagini con dettagli sottili.

Uno degli argomenti più critici del Desk Top Publishing è, da sempre, la risoluzione. Sigle come PPI e DPI sono presenti quotidianamente nella vita di grafici e operatori di stampa/prestampa, ma anche addetti al marketing e, purtroppo, una miriade di altri personaggi di varia estrazione che ne fanno un uso più o meno improprio, generando complicazioni a non finire.

Ricordiamo che… PPI è il termine da usare in tutti i casi in cui si parli di pixel, quindi tutte le immagini digitali, DPI solo quando si parla di risoluzione di stampa.

Se avessi messo da parte 1 € per ogni volta che ho sentito le frasi «la immagini per lo schermo si mettono a 72 dpi” oppure «questa immagine è in bassa risoluzione perché è a 72 dpi” sarei l’azionista di maggioranza della Apple.

Le immagini a schermo non hanno bisogno di risoluzione, hanno una dimensione: c’è una base e una altezza, entrambe espresse in pixel, e in base a quelle dimensioni avranno un determinato ingombro sullo schermo. Punto.

La risoluzione è un dato che deve esistere in quanto parte della definizione di un’immagine digitale, ma dato che mette in relazione unità di misura digitali (pixel) con unità di misura fisiche (pollici tipicamente) ha utilità solo quando si va in stampa, nell’altro caso non ha rilevanza.

Allora da dove arriva questa panzana? Sul Web troverete centinaia di ottime e circostanziate spiegazioni, ma per una sintesi potete restare su queste pagina.

Le immagini impaginate in un documento di illustrator con le relative informazioni: misurano circa 6 Megapixel e con quell’ingombro hanno una risoluzione intorno ai 730 ppi, nell’ingrandimento 10x a destra la risoluzione risultante è di circa 72 ppi. L’immagine B è oltre i 30 Megapixel, anche se l’ingombro fisico è identico al precedente la risoluzione risultante è di 1670 ppi, nell’ingrandimento a destra la risoluzione risultante è 72 ppi circa ma il fattore di ingrandimento è ovviamente molto maggiore dell’altra immagine.
Le immagini impaginate in un documento di illustrator con le relative informazioni: misurano circa 6 Megapixel e con quell’ingombro hanno una risoluzione intorno ai 730 ppi, nell’ingrandimento 10x a destra la risoluzione risultante è di circa 72 ppi.
L’immagine B è oltre i 30 Megapixel, anche se l’ingombro fisico è identico al precedente la risoluzione risultante è di 1670 ppi, nell’ingrandimento a destra la risoluzione risultante è 72 ppi circa ma il fattore di ingrandimento è ovviamente molto maggiore dell’altra immagine.

In principio erano i 72 dpi

Riassumendo molto la storia, i primi monitor «grafici» di casa Apple, rilasciati nel 1984 contestualmente al lancio del primo Macintosh, vennero realizzati in modo coerente alle unità di misura tipografiche.

In gergo più tecnico: Apple aveva definito la lunghezza del suo pollice logico in 72 pixel affiancandolo a un monitor che offriva effettivamente queste caratteristiche dimensionali, lanciando l’allora rivoluzionario concetto del wysiwyg (what you see is what you get, «quello che vedi è quello che ottieni»).

Cosa significa?

Tali monitor potevano visualizzare il testo a dimensioni «reali», cioè una scritta con corpo 12 punti su un foglio di carta risultava dimensionalmente uguale alla stessa scritta vista sul monitor. Venne scelto 72 proprio perché si tratta di un valore derivato direttamente dalle unità di misura tipografiche in uso ancora oggi: il punto tipografico convenzionale è circa 1/72 di pollice (approssimato a 0,35 mm nel punto cosiddetto «informatico»); in questo modo si poteva avere una corrispondenza biunivoca tra il pixel e il punto tipografico, con evidenti vantaggi visivi e operativi.

Nel 1985 poi, l’accoppiata Macintosh-Pagemaker determinò la nascita del Desktop Publishing, da cui nacque anche il luogo comune del «se fai grafica allora userai per forza un mac» o «se hai un pc allora non sei un vero grafico» ecc.

Tornando a noi, solo e soltanto in quel caso la risoluzione video era esattamente 72 ppi, ma non appena l’evoluzione tecnologica permise la produzione di display più risolventi (questa è una parola chiave: qui significa con maggior risoluzione video, quindi più pixel a parità di dimensioni, quindi più dettaglio) questo valore esatto venne meno, ma restò nella mente di tutti.

Quindi metto 72 ppi o no?

Dopo aver letto quanto sopra è probabile che ci si ponga quindi la domanda: «ma le immagini per la destinazione schermo le metto a 72 ppi oppure no?»

La risposta sintetica è «anche sì.»

I motivi meno sintetici sono i seguenti:

  • l’immagine sarà sempre grande uguale, anche se metterete 73, o 31, o 3.849, quindi è un valore ininfluente. Questo è vero naturalmente a meno che non facciate pasticci nella finestra di ridimensionamento immagine, se cambiate anche il numero di pixel di base e altezza spostate la questione in un’altra direzione;
  • vi risparmiate commenti «comici» di chi vi fa notare che le immagini «per Web» vanno a 72 dpi, risparmiando il vostro fegato per qualche birra in più;
  • uscendo dall’ambito strettamente legato alle immagini ed entrando in quello progettuale più ampio, impostare 72 ppi in un nuovo documento di Photoshop in cui realizzerete un layout per Web vi darà coerenza tra il corpo del carattere usato nel documento e quello gestito via codice (html per esempio).

Che risoluzione uso per la stampa?

E questa è la seconda grande domanda, che elenca numerose risposte delle più bizzarre specie, alcune ragionevolmente accettabili, altre oltre il limite della fantasia (o del buon senso).

Prima di impostare la corretta risoluzione di output per un elaborato fotografico o illustrativo (parliamo quindi di contenuti esclusivamente raster, non vettoriali) le domande fondamentali sono:

  1. Qual è la distanza minima ragionevole a cui verrà visualizzato da un osservatore?
  2. Su quale supporto?

Parto subito dalla 2 dato che è quella che incide meno delle due: se devo realizzare le grafiche per il rivestimento di un’impalcatura da restauro, notoriamente traforate, è inutile che ragiono come se il supporto fosse una carta patinata, perché il supporto stesso vanificherà gran parte del dettaglio iniziale. Tanto vale usare valori molto bassi fin dall’inizio così si riducono i tempi di lavorazione, così come quelli di stampa.

La domanda 1 invece richiede una trattazione più estesa.

Le immagini vanno a 300… all’ora. Contro un palo magari.

La «solita» risoluzione di 300 PPI è solo un parametro indicativo che consente un adeguato risultato finale nella pressoché totalità dei sistemi di stampa attuali. I software di impaginazione riportano sempre i valori di PPI iniziali e PPI risultanti nel momento in cui un’immagine viene inserita e ridimensionata in una gabbia, per cui è estremamente frequente trovarsi valori di risoluzione finali ben diversi da quelli iniziali. Ed è normale che sia così.

Nei processi di esportazione PDF le immagini che si trovano ad avere risoluzioni eccessive vengono ricampionate verso il basso, tipicamente a 300 visto che oltre è pressoché inutile, ma valori inferiori non generano necessariamente risultati di bassa qualità.

In base all’angolazione del retino tipografico i valori minimi consigliabili per una qualità ottimale possono scendere anche intorno ai 212 ppi (non possiamo approfondire qui ma trovate adeguata spiegazione per esempio nel volume 12 della Prestampa elettronica nella collana «Tecnologia grafica» della scuola grafica cartaria San Zeno), mentre per alcune riproduzioni artistiche si sale anche intorno ai 400. Ovviamente a valori così alti le differenze percettive possono essere minime ma di questo parleremo nel prossimo articolo.

Quali sono i discriminanti?

Principalmente il tipo di immagine: se presenta molti dettagli fini, è un’immagine cosiddetta «ad alte frequenze», ed è opportuno non lesinare sulla risoluzione e mantenere valori finali più elevati. Un esempio potrebbe essere la ruota di una bicicletta, o i capelli al vento di una modella, tutti dettagli che alla minima pixellatura attirerebbero l’attenzione dell’osservatore. In negativo.

Immagini ricche invece di basse frequenze, come un panorama con nuvole morbide per esempio, possono tollerare anche valori di riferimento più bassi, proprio perché risentirebbero meno di una riduzione di pixel complessiva.

In seconda battuta la qualità del sistema di stampa, il confronto con il fornitore diventa d’obbligo se si vuole ottimizzare davvero il risultato e se stiamo preparando delle immagini per una stampa su quotidiano va da sé che non sarà necessaria una risoluzione di 300 ppi ma ne basterà una da 150 ppi, con conseguente alleggerimento del peso a 1/4 dell’originale.

Immagini (eccessivamente) grandi che problemi portano?

  1. Maggiori tempi di elaborazione da parte del grafico

  2. Maggior spazio occupato sui dispositivi del grafico

  3. Tempi più lunghi di invio in rete e/o di salvataggio sui dispositivi

  4. Tempi più lunghi di processo da parte del RIP

  5. Perdita d’informazioni in seguito al processo del RIP (quello che non gli serve lo scarta, quindi se i pixel sono troppi per le impostazioni che gli sono state date elimina tutto il superfluo).

 

L’immagine in alto è sostanzialmente a basse frequenze, quella in basso invece ha diverse parti ricche di alte frequenze. Entrambe sono state portate a 72 ppi nei riquadri sulla destra, ma mentre quella in alto non evidenza grossi artefatti di ingrandimento quella in basso tende a “sgranare” con facilità. Per questo è opportuno mantenere risoluzioni di output più elevate (a parità di dimensioni fisiche) per le immagini con dettagli sottili.
L’immagine in alto è sostanzialmente a basse frequenze, quella in basso invece ha diverse parti ricche di alte frequenze. Entrambe sono state portate a 72 ppi nei riquadri sulla destra, ma mentre quella in alto non evidenza grossi artefatti di ingrandimento quella in basso tende a “sgranare” con facilità.
Per questo è opportuno mantenere risoluzioni di output più elevate (a parità di dimensioni fisiche) per le immagini con dettagli sottili.

Un libro per creare loghi che lasciano il segno

Logo Design. How to Create Logo That Stands Out

di Josh Cooper

  • CreateSpace Independent Publishing Platform
  • 42 pagine dicembre 2016
  • ISBN 978 1 5410 2996 5
  • 17,48 euro

Ogni impresa, per la propria attività commerciale, ha bisogno di una carta d’identità immediata che vada oltre qualsiasi altra forma di presentazione complessa. Questa carta d’identità è il logo, cioè quel semplice segno grafico che rende un’azienda facilmente riconoscibile al vasto pubblico. Questo interessante volume permetterà di scoprire che cos’è il branding e perché un’impresa, grande o piccola che sia, ha bisogno di un logo per definire la propria identità di marca. Illustrerà inoltre quali passi è necessario fare nelle fasi di progettazione di un logo e quali errori evitare nel lungo processo creativo.