Economia

Brexit: l’Italia risulterebbe, secondo Standard and Poor’s, poco vulnerabile

Dopo l’esito del referendum inglese del 23 giugno scorso che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dell’Unione Europea, sono state parecchie le analisi sulle conseguenze economiche per il nostro Paese. A onor di cronaca è bene citare l’opinione ufficiale proveniente dal ministero dell’economia che, nelle ore successive alla notizia sull’inatteso risultato della consultazione referendaria, ha diramato una nota in cui emergono considerazioni tranquillizzanti circa gli effetti sull’economia reale: la solidità dei fondamentali delle nostre imprese infatti prevarrebbe sulla volatilità dei mercati finanziari. A tal proposito vale la pena ricordare il quadro relativamente confortante disegnato anche da Standard and Poor’s. L’agenzia di rating americana ha stilato una classifica dei venti Paesi più vulnerabili agli effetti della Brexit e in questo ranking l’Italia è appunto al diciannovesimo posto. Ovvero risulterebbe (insieme all’Austria) ben poco vulnerabile considerando svariati fattori come esportazioni di beni e servizi verso il Regno Unito in relazione al Pil nazionale, flussi bidirezionali di emigrazione, crediti del settore finanziario su controparti britanniche e investimenti stranieri diretti nel paese di Sua Maestà. Insomma l’Italia non correrebbe gravi pericoli perché il nostro interscambio di beni e servizi con la Gran Bretagna è intorno al 3% del Pil.

Inoltre, l’esposizione diretta delle società italiane in Gran Bretagna risulterebbe abbastanza limitata: il team di gestione della milanese Intermonte Advisory ha evidenziato come tale esposizione da parte principali società del FTSE MIB, misurata come percentuale del fatturato generato in Gran Bretagna, è piuttosto modesta e concentrata su alcune società, mentre l’esposizione indiretta, misurata come instabilità dei mercati legata alle conseguenze politiche dell’uscita del Regno Unito dall’Europa, sarebbe invece più elevata data la proverbiale maggiore debolezza del nostro debito pubblico. Insomma con la Brexit è previsto un ampliamento degli spread nel mercato obbligazionario, specialmente per gli emittenti periferici. Su tutto bisogna aggiungere, però, che l’effetto Brexit ha influenzato i primi giorni dello scorso luglio. Nel corso dell’estate è invece andato scemando dal momento che concretamente le ricadute non sono immediatamente visibili sull’economia inglese ed europea.

Una crescita rallentata

In ogni caso, l’esito del referendum britannico ha sollevato onde alte e lunghe, con conseguenze economiche e politiche che si estenderanno per molto tempo. Secondo le stime del Centro Studi di Confindustria elaborate a fine giugno, gli effetti della Brexit agirebbero sul rallentamento della domanda globale, che causa una crescita più lenta delle esportazioni italiane, l’aumento dell’incertezza tra imprese e consumatori determinando una maggiore prudenza nei comportamenti di consumo e nelle decisioni di investimento. Da considerare infine la caduta del prezzo delle azioni che riduce la ricchezza delle famiglie e accresce il costo del capitale di rischio. Secondo Confindustria le conseguenze si manifesteranno in modo più evidente nel 2017, poiché il bilancio del 2016 è fortemente influenzato dall’andamento già acquisito. Stando sempre al report del centro studi, l’impatto sulla crescita del Pil italiano, rispetto allo scenario che non contemplava la Brexit, è quantificabile in un decimo di punto quest’anno e in cinque decimi il prossimo. La valutazione di tale impatto risente della mancanza di precedenti storici e dei tempi incerti di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Inoltre, nel modello di previsione del CSC non è computabile l’impatto di un eventuale, ma probabile, peggioramento delle condizioni di accesso al credito praticate dalle banche italiane.

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