Intervista a Luca Paolazzi, direttore del Centro Studi di Confindustria

A dicembre è stato chiuso un documento sugli scenari economici, elaborato da Confindustria, dal titolo La crisi a un punto di snodo: tassi, materie prime, politiche di bilancio, populismi. Abbiamo fatto qualche domanda Luca Paolazzi, Direttore Centro Studi Confindustria.

Quali sono le ragioni per credere che ci troviamo di fronte a un punto di snodo?

«Nell’ultima parte dell’anno si sono affacciati una serie di fattori che per numero e rilevanza costituiscono uno snodo cruciale per l’economia internazionale e la lunga crisi che ancora l’attraversa. Al contempo i risultati delle consultazioni popolari del 2016 ci dimostrano che c’è un grande sentimento anti-globalizzazione nell’opinione pubblica, che si manifesta con il crescente consenso verso misure populistiche e nazionalismo. Ciò alimenta il perdurare del rischio politico in molti paesi.»

Quali sono i fattori che contribuiscono a modificare lo scenario internazionale?

«Innanzitutto la politica di bilancio è tornata a essere indicata come leva per sostenere la domanda interna, sia per l’elezione di Trump alla Casa Bianca sia per le promesse del Regno Unito e le proposte della Commissione europea. Le principale economie, avanzate ed emergenti, hanno ripreso a crescere e con loro prende vigore il commercio mondiale, che prevediamo tornare a prendere slancio rispetto al 2016. La fiducia nei mercati finanziari e tra gli operatori aiuta. A questi fattori si aggiungono i tassi di interesse che si avviano ad abbandonare i minimi storici, il petrolio che torna a salire insieme alle altre materie prime e l’inflazione che si allontana dalla soglia zero, seppur in un quadro globale ancora deflazionistico. Il dollaro intanto prosegue il suo rafforzamento nei confronti dell’euro e delle altre principali valute, mentre il protezionismo, oltre a rafforzarsi, viene legittimato, grazie alle politiche promesse negli USA da Donald Trump. Una svolta positiva potrebbe avverarsi, ma permangono i rischi al ribasso.»

Esiste un filo conduttore che accomuna i risultati delle urne, dalla Brexit a Trump, fino al rifiuto della riforma costituzionale in Italia?

«L’attuale momento storico, caratterizzato da bassa crescita economica definita “stagnazione secolare” e da profonda incertezza politica soprattutto in Europa, è frutto della crisi finanziaria del 2007. Dopo essersi estesa all’economia reale portando con sé recessione ed austerity adesso la crisi si è tramutata in rischio politico. I governi non paiono in grado di fornire risposte adeguate alle difficoltà dei cittadini, e ciò alimenta sentimenti anti-globalizzazione e anti-immigrazione. L’alta disoccupazione, la disuguaglianza nei redditi, la crescita debole, la globalizzazione stessa, hanno causato vincitori e vinti. I secondi diventano maggioranza elettorale ed esprimono il proprio dissenso invocando più interventi dello stato e nazionalismo. La globalizzazione ha mutato forma, il suo impatto complessivo è sempre positivo ma più istantaneo e individuale, difficile da prevedere e controllare. E tutto ciò genera incertezza. Dazi e protezionismo però non costituiscono una risposta adeguata.»

Come dovrebbero comportarsi i governi?

«Dovrebbero investire nella protezione dei lavoratori, invece che dei posti di lavoro, promuovere istruzione e formazione, supportare mobilità sociale e reddito, favorire accordi commerciali che proteggano i “perdenti”, puntare sull’immigrazione qualificata per evitare che i costi della globalizzazione ricadano sui più deboli.»

In questo scenario di profondo cambiamento come si colloca il nostro Paese?

«L’economia italiana torna ad avanzare, lentamente e a corrente alternata, e di conseguenza anche le previsioni del CSC sono riviste al rialzo rispetto allo scorso settembre. Su di queste incidono il ritocco all’insù delle cifre della prima metà dell’anno e l’andamento migliore dell’atteso nel secondo semestre. Inoltre la Legge di bilancio, che prevede maggior ricorso alla flessibilità nel rapporto deficit/PIL e un forte effetto leva sugli investimenti in macchinari, non era contemplata nelle previsioni stimate in settembre. Il PIL è quindi atteso crescere dello 0,8% nel 2017 (dallo 0,5%) e dell’1% nel 2018. L’occupazione, alla fine del prossimo biennio, avrà recuperato 905mila unità da fine 2013, anche se resterà ancora inferiore di 1,1 milioni di unità dal massimo del 2008. La disoccupazione scenderà all’11% nel 2017 e al 10,5% nel 2018. Nel confronto internazionale l’Italia ha perso terreno nella competizione per attrarre investimenti e talenti, perché alle nostre riforme hanno risposto riforme ancora più incisive in altri paesi. Occorre viaggiare a velocità doppia per recuperare il divario. L’attuazione del Piano nazionale per Industria 4.0 e la realizzazione di politiche attive per il lavoro e l’internazionalizzazione vanno in questa direzione. Temporeggiare non è più possibile e avrebbe conseguenze molto gravi, per esempio la dissipazione di capitale umano, specie giovanile, attraverso emigrazione e disoccupazione.»

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