Stampa digitale e packaging farmaceutico: l’esperienza di Abar Litofarma

L’introduzione della stampa digitale nove anni fa in un’azienda specializzata nel packaging farmaceutico è stata talmente deludente da sospendere il progetto a tempo indeterminato. Ecco quali sono stati i problemi e la volontà di riprovarci in futuro. A patto che i produttori siano più chiari.

Chi ha visto il film Frankenstein Junior diretto da Mel Brooks ricorderà la reazione dei cavalli ogni volta che si nomina Frau Blücher. Ecco, nel gruppo cartotecnico Abar Litofarma è più o meno la stessa reazione che hanno tutti ancora oggi quando si nomina la stampa digitale nonostante il suo inserimento nel flusso produttivo, anzi il tentativo di farlo, risalga a nove anni fa. Un investimento probabilmente fatto nel momento sbagliato, senza molta consapevolezza e con aspettative troppo scostate dalla realtà.

Del perché la stampa digitale nella sua azienda sia considerata ancora oggi un incubo, ma con possibili aperture per il futuro come vedremo più avanti, lo ha raccontato Fulvia Lo Duca ne suo intervento in occasione del convegno di Italia Grafica sulla stampa digitale, svoltosi lo scorso settembre; per completezza delle informazioni, riportiamo ora un estratto dell’intervento, che potete leggere per intero sulla rivista; abbiamo deciso di riportare questi interventi perché le tematiche sono attualissime.

«Per delicatezza non dirò il nome del produttore – racconta – ma la chiamerò semplicemente “la macchina”, soluzione che in certi momenti abbiamo avuto l’impressione avesse più bisogno di un esorcista che di interventi tecnici. Una macchina sulla quale avevamo deciso di investire nel 2007 per essere competitivi su piccoli e micro lotti, ma che sin dall’inizio ci siamo accorti che non voleva collaborare in nessun modo. Amava bloccarsi dopo venti o trenta pagine perché, lo abbiamo scoperto dopo, ci era stata venduta come in grado di stampare fogli fino a 500 micron di spessore, ma in realtà dopo 400 non ci riusciva più e si inceppava continuamente. Quando ci siamo accorti di questo limite, l’ulteriore sorpresa è stata che non riusciva in nessun modo a tenere il registro quando andavamo in volta. Il nostro capo reparto di stampa ci ha detto, con termine probabilmente non propriamente tecnico che “scodava”. A questi problemi se ne sono aggiunti altri densitometrici, spettrofotometrici e di finitura. Qualche esempio? I fondi pieni, anziché essere realmente pieni, avevano un aspetto nuvolato. Non siamo riusciti a emulare più dell’84% dei colori Pantone, nonostante il produrre dichiarasse una percentuale del 92%. I problemi riguardavano soprattutto i gialli, i verdi e gli arancioni. Il termine tecnico del nostro caporeparto stampa relativo alla tonalità di arancione era “marcio”. Infine abbiamo avuto problemi con la finitura. Siamo dovuti andare direttamente negli Stati Uniti per scegliere e acquistare l’elemento verniciatore, per poi scoprire che la maggior parte delle vernici non ancoravano o se lo facevano il foglio diventava così ruvido da compromettere tutte le lavorazioni successive. Ciliegina sulla torta: nel suo intervento Alessandro Mambretti (vedere relativo articolo, ndr) ha detto che la stampa digitale rappresenta il percorso più breve tra il dato e il supporto. Peccato che in questa soluzione in qualche caso alcuni dati si volatilizzavano e nel farmaceutico non è certo una cosa bella. Tutto questo con i nostri clienti sempre più scettici e poco disposti a validarci la macchina perché molto lontana dai bisogni e dalle aspettative da nostri clienti».

Leggi tutto l’articolo a pagina 26: ecco come Abar Litofarma ha dato una seconda chanche alla stampa digitale!

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