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L’etichettificio Perruccio utilizza la tecnologia Epson per la produzione di alta qualità

Cosa c’è dietro un vino di qualità? Oltre all’eccellenza del prodotto anche un’etichetta di qualità che nasce da un lungo lavoro fatto di ricerca, progettazione e creazione che può esprimere tutta la sua forza e la sua attrattività visiva e tattile solo se viene prodotta da aziende che, della ricerca della perfezione, hanno fatto una mission. In particolare, anche la stampa riveste un ruolo significativo nella produzione della etichetta perché ha il compito di comunicare, valorizzare e riprodurre al meglio tutte le preziose qualità che il vino possiede. La nuova etichetta per il vino Con vista – Chianti Classico Cecchi è un perfetto esempio di questa filiera di eccellenza e il risultato della proficua collaborazione tra molte aziende e professionalità: Mario Di Paolo l’ha progettata, Arconvert ha fornito le carte autoadesive, Luxoro i cliché e le lamine in foglia d’oro, mentre l’etichettificio Perruccio l’ha stampata con cura artigianale con l’impiego della tecnologia Epson.
L’etichetta rappresenta il biglietto da visita di un vino e deve esprimere tutti i valori del prodotto e della cantina che lo produce. «La sfida più grande nella sua ideazione – spiega Mario di Paolo, label designer – è coniugare in pochi centimetri quadrati tecnica, creatività e soprattutto innovazione».
La scelta di carte autoadesive pregiate, il rilievo tridimensionale, la lamina d’oro applicata dopo la stampa richiedevano una stampante in grado di coniugare, su carta pregiata dalla particolare finitura, una precisa resa cromatica, una superiore definizione del dettaglio e una velocità di produzione altrettanto elevata. La stampante digitale inkjet Epson SurePress L-4033 ha permesso di valorizzare il lavoro svolto in fase di ricerca e progettazione, trasferendo su carta la promessa fatta al consumatore: qualità, valore, peculiarità e sapore.

«I clienti che si rivolgono al mercato del lusso possono trovare, con la serie Epson SurePress, la soluzione alle loro esigenze – afferma Renato Sangalli, sales manager ProGraphics di Epson Italia -. Questo modello è particolarmente adatto alla stampa su carte naturali non pre-trattate, in particolar modo quelle destinate al settore enologico».
Le etichette prodotte con la serie SurePress possono entrare direttamente in contatto con l’acqua e con l’umidità senza la necessità di un trattamento superficiale protettivo, semplificando il processo e permettendo di ottenere etichette di qualità elevata in modo facile ed efficiente.
«Epson ci aiuta nelle produzioni veloci, ma anche nelle piccole tirature – ha dichiarato Massimo Perruccio, titolare dell’omonimo etichettificio. – Inoltre, ci dà la sicurezza di una qualità sempre alta».

 

Al Viscom Regional Roma le potenzialità della comunicazione visiva

Si è chiusa l’edizione di Viscom Regional, l’appuntamento itinerante che, nel mese di aprile, ha portato il mondo dell’industria della comunicazione visiva sul territorio romano. L’evento ha offerto alle realtà imprenditoriali locali un modo nuovo per scoprire i segreti del mestiere e ispirarsi a idee innovative per variare i propri prodotti e servizi, per sperimentare un nuovo approccio di contatto diretto con i propri clienti.

Obiettivo dell’appuntamento è stato proprio quello di aprire scenari che permettano agli attori dellacomunicazione di disporre di nuovi strumenti, indispensabili per differenziarsi, aumentare la competitività perandare oltre i confini dell’attuale business. Oltre 500 professionisti registrati e il consenso da parte degli espositoripresenti che hanno apprezzato sia l’opportunità di incontrare i clienti locali, rinnovando le loro relazioni dibusiness, sia l’occasione di creare contatti con nuovi clienti interessati che, in altro modo, non sarebbero riusciti araggiungere.

Ad arricchire l’area espositiva un susseguirsi di dimostrazioni live, dove i professionisti hanno condiviso in modo concreto la propria esperienza con colleghi e operatori per trovare idee vincenti per ampliare la propria strategia aziendale. I visitatori hanno potuto realizzare t-shirt con grafiche auto scontornanti, che vedono la compresenza di bianco a registro, colori illimitati e brillanti, dettagli laminati ed effetti particolari. Oppure toccare con mano la differenza dei rivestimenti adesivi e sperimentare in prima persona la leggerezza, la flessibilità, oltre alla qualità estetica dei laminati materici.

Un’offerta di contenuti di alto livello durante i seminari tenuti da testimonial per aiutare le imprese a migliorare il loro lavoro. Roberto Capuazzo ha spiegato ai professionisti del mondo della grafica vettoriale l’utilizzo di software come CorelDraw per scoprire come migliorare la costruzione dei file per il laser e la stampa digitale. Dario Morelli, HP Italy e Luca Pianigiani, Jumper ci hanno introdotto nel mondo dei social per realizzare nuove strategie di comunicazione e Giovanni Re, Roland DG Mid Europe ha raccontato diverse esperienze di valore con la stampa digitale per personalizzare il proprio business rendendolo decisamente più efficace.

Il prossimo appuntamento con il mercato della comunicazione visiva è con Viscom Italia dal 18 al 20 ottobre 2018 in Fiera Milano.

Un nuovo polo tecnologico a Lione per Bobst

A settembre 2018, Bobst aprirà il Competence Center nel suo sito di Bron, nelle immediate vicinanze di Lione. La nuova imponente struttura, iniziata nell’ottobre 2017, si estende per una lunghezza di 114 metri e interessa un’area di 2000 metri quadrati.

Per la prima volta, Bobst Lione avrà uno showroom interamente dedicato alle proprie macchine. I clienti avranno la possibilità di visionare le nuove  linee di produzione, come se le stesse si trovassero nelle effettive condizioni di lavoro. Gli ingegneri e i tecnici Bobst utilizzeranno inoltre il Competence Center  per accrescere le loro capacità e sviluppare nuove tecnologie.

Inoltre, dalla prossima estate e fino al 2020  è previsto l’ampliamento del sito di Bron, con la costruzione di un edificio progettato per riunire assieme l’intero personale amministrativo.

Bobst Lyon è attiva nell’area omonima dal 1923, impiega circa 750 addetti e produce linea ad alto contenuto tecnologico. Le linee di produzione sono in grado di realizzare in linea ed in un unico passaggio i processi di stampa flessografica, fustellatura, piega-incollatura. Con lo stesso procedimento sono in grado di produrre imballaggi alla velocità di  33.000 unità all’ora.

 

A Packaging Première stampe di lusso con Albertin

Inviti, packaging, biglietti da visita, copertine, flaconi, etichette, shopper: non esiste supporto che non venga personalizzato dai brand per essere trasformato in strumento di promozione capace di lasciare il segno. Per realizzarlo si fa ricorso a stampe a caldo e nobilitazioni di ogni genere, ma alla base di qualsiasi processo c’è un solo prodotto, il cliché.

Dal 1971 i cliché Albertin sono conosciuti per la precisione dei dettagli, grazie ai quali è possibile ricreare qualsiasi disegno. L’ampio catalogo dell’azienda include cliché in ottone, in magnesio e in gomma siliconica, oltre che cilindri, forme flessografiche e lastre flessografiche di verniciatura, tutti prodotti internamente.

L’azienda sarà presente alla manifestazione di maggio Packaging Première con cliché e lastre per nobilitare qualsiasi tipologia di stampato.

«Per noi Made in Italy è sinonimo di qualità e precisione, di cura in ogni dettaglio, di sartorialità»afferma Ferruccio Albertin, CEO dell’azienda. «Il nostro team di grafici prende in carico ogni progetto ottimizzando i file ricevuti per i nostri processi di lavorazione. Solo dopo un attento studio di fattibilità andiamo in produzione. Dai cliché in ottone a quelli in magnesio fino alle lastre e altri prodotti, tutto viene prodotto nel nostro stabilimento di Cinisello Balsamo, da sempre. Siamo gli unici responsabili dei cliché che consegniamo, e questo ci consente di tenere sotto controllo l’intero processo produttivo, dall’arrivo del file alla spedizione della merce. Se il cliché è stato sviluppato correttamente, applichiamo il nostro sigillo Prodotto in Italia, orgogliosi di far parte di una tradizione, quella italiana, che si contraddistingue in tutto il mondo per l’originalità delle creazioni», conclude Albertin.

A Packaging Première Albertin presenterà la sua gamma di prodotti e mostrerà alcuni dei risultati di stampa realizzabili nel primo volume della Microembossing Texture Collection, in distribuzione presso il proprio stand.

Fujifilm Acuity B1 amplia le applicazioni in ambito serigrafico

Una stampante digitale inkjet di nuova generazione andrà ad accrescere tra breve la famiglia di sistemi di stampa digitale a getto d’inchiostro Acuity di Fujifilm: la nuovissima Acuity B1, che sarà ufficialmente presentata a Fespa Global Print Expo 2018. Basata sulle più aggiornate e innovative tecnologie inkjet UV sviluppate da Fujifilm che integrano le teste di stampa Dimatix QFR7 con gli inchiostri Uvijet ad alte prestazioni per produrre risultati di altissima qualità, comparabili con la stampa offset, Acuity B1 esegue con tecnologia digitale tutte le applicazioni finora riservate al procedimento serigrafico. Offre un formato di stampa di 1040×714 mm, versatile e adatto a risolvere le più diverse esigenze di stampa in applicazioni grafiche, industriali e commerciali, per uso sia all’interno che all’esterno e permette di scegliere fra un’ampia gamma di supporti di stampa: carte normali o patinate, cartone, metallo, materiali plastici come PP, PS, PVC, PE e PETG in formati che spaziano da un minimo di 530×380 mm a un massimo di 1050×750 mm e spessori da 0.1 a 10 mm.

La possibilità di automatizzazione totale dell’intero procedimento e l’alta produttività, che può arrivare a 200 fogli/ora, garantiscono l’ottimizzazione dei flussi di lavoro, riducono la necessità di manodopera e permettono di aumentare la produzione. Acuity B1 stampa in quadricromia, con colori pastello e arancio opzionali. Il sistema di registro ad alta precisione, pari a +/- 0.25 mm con variazioni di +/- 0.1 mm con allineamento ottico, le 12 teste di scrittura Fujifilm Dimatix QFR7 a 7pl e gli inchiostri Fujifilm Uvijet concorrono alla realizzazione di stampati di alta qualità, capaci di soddisfare anche le più esigenti aspettative del mercato.

Acuity B1 si aggiunge alla famiglia di stampanti industriali roll to roll e flat bed Acuity, ideali per le più diverse applicazioni di alta qualità su bobina e materiali rigidi, tra cui display grafici, segnaletica, adesivi, stampe per wall decoratione prototipazione di imballaggi, in tutti i formati fino al superwide, di cui sono già noti e apprezzati in tutto il mondo i modelli Acuity Led 1600 e 3200 R e che, una volta ultimati i test beta attualmente in atto, comprenderà anche la nuova piattaforma rivoluzionaria Acuity Ultra, con larghezza 3 e 5 metri e produttività di 200 mq/ora.

 

La nuova sede del Gruppo Masserdotti: una sfida vinta

Nel garage di casa con sole 19.000 lire in tasca un giovanissimo Andrea Masserdotti pone le fondamenta di quella che a 50 anni di distanza è una delle realtà più conosciute e apprezzate nel panorama italiano ed europeo della visual comumunication, il Gruppo Masserdotti. Ricordando questo episodio, con commozione e orgoglio, ha esordito Alberto Masserdotti, Ceo del Gruppo, ieri durante la presentazione alla stampa della sede nuova dell’azienda.

Una sede di 10mila mq, dinamica e contemporanea,  costruita completamente dal nulla in soli sei mesi (con un unico stop di lavoro di appena 6 ore), una sfida vinta sia dal punto di vista tecnologico sia temporale. «A gennaio ci siamo trasferiti a Castel Mella – spiega Masserdotti – in questa nuova struttura dotata di impiantistica di ultima generazione scelta per accogliere tutti i nostri reparti in fase di espansione». Un’esigenza dettata anche dall’altra novità, l’ampliamento del parco macchine già iniziato nel 2016 con l’acquisto di una fresa Zund e una HP Latex da 3 metri , che ha visto l’installazione di un’ulteriore fresa e di due stampanti digitali Durst. E nell’ampio reparto produttivo c’è ancora altro spazio per crescere.

All’implementazione di sistemi tecnologici si affiancano inoltre importanti investimenti in software gestionali e per il workflow. «Scelte mirate da un lato a sviluppare un processo sempre più orientato agli attuali standard dell’industry 4.0 dall’altro a elevare ulteriormente i livelli qualitativi garantiti focalizzandoci ancora di più sulla produzione interna».

Uno sviluppo che ha visto coinvolto tutto il team aziendale. «La condivisione degli obiettivi con l’intero staff è uno degli aspetti fondamentali che hanno portato al successo di questi anni – prosegue Masserdotti – perché qualsiasi processo di crescita passa innanzitutto attraverso le persone». Tra le novità di questo anniversario c’è stato dunque anche l’ingresso di un nuovo membro nella compagine societaria: Marcello Lamperti, attuale General manager del Gruppo. «L’entrata di Marcello nel CDA rappresenta non solo un riconoscimento della stima personale e professionale che ci lega, ma un’ulteriore spinta alla creazione di una struttura sempre più manageriale al servizio dei clienti che da 50 anni ci rinnovano la loro fiducia».

Canon presente a Print4All

Canon Italia parteciperà a Print4All con le soluzioni performanti della più recente gamma per rispondere alle esigenze e agli obiettivi di business dei propri clienti e partner.

In particolare, a Print4All Canon si propone di mostrare ai professionisti della stampa come sia possibile perseguire nuove opportunità di crescita attraverso la diversificazione della propria offerta, guidandoli alla scoperta delle innovative applicazioni nei settori dell’editoria, della stampa promozionale, della comunicazione visiva di grande formato per interni ed esterni; il tutto gestito in un flusso integrato di lavoro di stampa erelativa finitura.

Un esempio delle potenzialità offerte dalla stampa digitale sarà offerto dalla campagna Elemental: la riproduzione di una campagna di comunicazione dedicata a un brand di cosmetica. Questo progetto è nato con la volontà di mostrare la gamma di applicazioni realizzabili attraverso la stampa, le funzionalità digitali e la conoscenza del marketing che Canon è in grado di offrire a un print service provider quando lavora con i propri clienti. Dalle applicazioni per la decorazione d’interni ai banner, ai roll-up, fino ai poster passando per le brochure, i flyer e il packaging personalizzato: i visitatori dello stand Canon potranno sperimentare dal vivo come le diverse applicazioni, realizzate attraverso l’impiego di unagrande varietà di supporti e differenti tecnologie, contribuiscano per creare una campagna multicanale dal forte impatto comunicativo.

Non solo la produzione live di applicazioni per campagne di marketing personalizzate, i visitatori dello stand potranno assistere anche alla realizzazione di micro-tirature editoriali di libri con cucitura online filo-refe, unitamente a riviste, packaging promozionale, materiale per punto vendita. Una panoramica sull’offerta di stampa digitale in ogni sua area: dal mondo delle arti grafiche alla stampa per l’editoria, dagli stampatori commerciali alla stampa di produzione.

A rendere tutto questo possibile è l’amplissima offerta tecnologica che Canon esporrà a Print4All. Protagonista indiscussa dello stand sarà Océ VarioPrint i300, la soluzione di stampa dall’innovativa tecnologia inkjet a foglio di formato 35×50, con una nuova generazione di inchiostri MX (Media eXended), capace di rendere la stampa più versatile per un’ampia gamma di supporti, inclusa la patinata offset. Océ VarioPrint i300 è in grado di coniugare i vantaggi in termini di alta produttività ed economicità dellatecnologia a getto d’inchiostro con la versatilità del foglio e la flessibilità dei supporti di stampa.Produttività, versatilità e flessibilità che rendono Océ VarioPrint i300 la soluzione ideale per esplorare nuove opportunità di business, prestandosi a una vastissima gamma di applicazioni, dalla comunicazione transazionale a quella promozionale ed editoriale.

All’interno di uno stand Canon di oltre 200 mq, i visitatori potranno vedere in azione anche Océ Colorado1640, Canon imagePRESS C10000VP, Océ VarioPrint 6000 TITAN e Canon imagePRESS C850, oltre ad avere la possibilità di partecipare a incontri mirati, dimostrazioni live e approfondimenti durante tutto ilcorso dell’evento fieristico.

«La mission di Canon è da sempre quella di ispirare clienti e partner a cogliere le innumerevoli opportunità di business che il settore della stampa offre, accompagnandoli nello sviluppo di capacità e possibilità creative sempre nuove. Per farlo mettiamo a disposizione le nostre competenze e le più avanzate soluzionidi stampa con un’offerta a 360 gradi. Canon Infatti è annoverata tra i principali fornitori di soluzioni digitali avanzate per la stampa di produzione, grazie a una gamma di prodotti, leader di mercato: sistemi a elevata produzione a toner e a getto di inchiostro a foglio, stampanti a getto di inchiostro a modulo continuo e stampanti di grande formato roll-to-roll e flatbed. Tutti questi prodotti sono supportati da soluzioni di workflow e di finishing, proprietari e di terze parti. Le soluzioni esposte presso lo stand sarannointegrate in flussi di lavoro di produzione dal vivo, molti dei quali implicano l’elaborazione di dati variabilicomplessi e la finitura» ha commento Teresa Esposito, marketing & sales exellence director business group di Canon Italia che aggiunge: «A Print4All i visitatori potranno trovare ispirazione per il proprio business tra le applicazioni di stampa, che illustrano chiaramente la vasta gamma di opportunità per diversificare e ampliare la propria offerta».

Caratterizzare e certificare le tinte piatte con il CxF/X-4

Il colore è un fattore fondamentale nella creazione di quasi tutti i prodotti, un controllo efficace è essenziale dunque per raggiungere la qualità del prodotto e l’efficienza dei costi. E il CxF/X permette di eliminare le ambiguità nello scambio dei dati colore.

Uno dei primi requisiti nel packaging e nel brand management è l’accuratezza con cui viene riprodotto il colore. Quando Adobe inizialmente sviluppò il formato PDF, le esigenze di colore non erano così stringenti come quelle attuali, infatti c’era esclusivamente il supporto ai metodi colore CMYK, RGB, LAB e «named color» (colori Pantone). La stampa in quadricromia non fornisce una soluzione ai reali bisogni di accuratezza cromatica, mentre il «named color» è solo un modo per descrivere i colori speciali. Ne consegue che entrambi i metodi colore non sono davvero un modo standardizzato per le esigenze di scambio cieco nella realizzazione degli imballaggi. La scatola, l’etichetta o qualsiasi altro oggetto possono essere stampati su diversi tipi di supporto, tra cui carta, poliestere, substrati metallici, e con differenti tipologie di stampa, spesso abbinate tra loro. Anche i tipi di inchiostro che vengono utilizzati influenzano largamente la riproduzione del colore. Un metodo comune per comunicare le tinte piatte alla stampa è l’utilizzo fisico delle mazzette Pantone, anche se queste sono soggette a variazioni cromatiche nel corso del tempo, dovute all’esposizione alla luce o allo sfregamento meccanico subìto durante il loro utilizzo. È, inoltre, importante capire che la maggior parte dei colori in esse riprodotti, rappresentano semplicemente un risultato visivo di quell’inchiostro su un ipotetico supporto cartaceo.

In commercio esistono diverse mazzette che coprono solo alcuni tipi di carta, tra cui le patinate lucide, le patinate opache o l’usomano, mentre per altri tipi di materiale o in caso di nobilitazioni (plastificazione, vernici, ecc…) il risultato del colore può cambiare notevolmente. Molti brand owner invece utilizzano delle cartelle colore con all’interno dei campioni stampati, per fornire una rappresentazione visiva a tutti coloro che sono coinvolti nel processo produttivo e in alcuni casi anche informazioni sulle condizioni in cui il colore di stampa deve essere confrontato con il campione fornito. Anche in questo caso però, il comportamento in produzione della tinta prodotta è spesso molto problematico da prevedere. Come comunicare allora questi colori speciali in modo che incontrino una designazione standard che supporti tutte queste variabili? Per sopperire a queste criticità ci viene in soccorso il CxF/X-4 (Color Exchange Format), un framework tecnologico basato su XML (sviluppato inizialmente da X-Rite nel 2002) e che ha visto nel corso del tempo numerosi miglioramenti, fino a diventare uno standard internazionale nella norma ISO 17972-4:2018.

CxF/X-4: che cosa è

Si tratta di un formato di interscambio per i dati di misurazione spettrale degli inchiostri e per fornire un mezzo per caratterizzare le tinte piatte. Il CxF/X-4 contiene infatti la curva spettrale del colore per la formulazione dell’inchiostro, la rappresentazione corretta a monitor, la prova colore e la determinazione dell’opacità per sapere come si comporta l’inchiostro a livello di coprenza. Questo è già incluso nativamente nel PDF 2.0 e lo sarà nelle future versioni del PDF/X, all’interno dell’intento di output. Naturalmente questa norma non ha ricadute solo sul packaging, infatti può essere utilizzata a tutti i livelli. Ciò che rende il CxF/X-4 così importante è la capacità di contenere al suo interno anche le informazioni sulla condizione di misurazione, come lo strumento utilizzato con le relative impostazioni, la tipologia di supporto, una preesistente formulazione dell’inchiostro e le specifiche tolleranze che il brand richiede per la riproduzione della tinta. È inoltre possibile includere ulteriori informazioni personalizzate e considerate utili per l’archiviazione o l’interscambio. Il CxF/X-4 come standard ISO non è solo un valido aiuto nel processo di produzione in stampa, ma può essere sfruttato anche in fase di studio del progetto grafico, da una parte dei visualizzatori PDF, dai sistemi di prova colore e dagli strumenti di controllo colorimetrico in linea e fuori linea. Al momento molti fornitori di tecnologie delle arti grafiche non offrono ancora un pieno supporto a questo standard, altri invece stanno sviluppando degli strumenti molto interessanti come vedremo nel seguito di questo articolo.

Figura1. Flusso di lavoro ORIS CxF Toolbox.

Gli strumenti

Per avere un riscontro pratico sulle potenzialità di questo formato, abbiamo provato a caratterizzare e certificare una tinta piatta con ORIS CxF Toolbox, un software sviluppato da CGS www.cgs-oris.com che consente una gestione completa del CxF/X-4 (Figura 1). L’applicazione supporta diversi spettrofotometri della X-Rite in modalità nativa, ma è possibile utilizzare qualsiasi strumento che possa salvare i file in formato CGATS, PQX e QTX. È consentita l’importazione di un PDF/X-4 contenente le definizioni in CxF/X-4, di un file CxF3 o una misurazione spettrale tra quelle sopra elencate. Non è invece consigliabile l’utilizzo di librerie standard digitali, in quanto si andrebbe a perdere la facoltà di definire un colore con la massima precisione. Per intenderci le librerie Pantone non contengono valori comparabili con quelli che si ottengono utilizzando i propri materiali (carta e inchiostro) e la propria macchina da stampa. La prima operazione da compiere è determinare le impostazioni di misurazione nel pannello delle preferenze, da cui è possibile scegliere anche quale formula utilizzare per il calcolo della copertura superficiale del punto (TVI). Nel menu a tendina è già presente la formula SCTV (Spot Color Tone Value) pubblicata lo scorso agosto nella norma ISO 20654:2017, che garantisce una migliore progressione dei toni rispetto alla Murray-Davies e che pertanto risulta più coerente con la percezione visiva (Figura 2).

Figura2. Impostazioni di misurazione nel pannello delle preferenze.

Le misurazioni

Il CxF/X-4 si può ottenere in 3 diverse varianti. Si può partire da un modello base (CxF/X-4b Single Patch) in cui si legge soltanto il pieno della tinta (che è la classica definizione del Pantone che si trova nelle librerie di X-Rite), si passa poi a una caratterizzazione intermedia (CxF/X-4a Single Background) dove si misurano 11 tacche graduate su fondo bianco con progressioni del 10% dal substrato al solido, fino ad arrivare alla caratterizzazione completa (CxF/X-4 Full) dove le 11 tacche si misurano sia su fondo bianco che su fondo nero. Per utilizzarlo correttamente è necessario avere un test chart (Figura 3) da stampare per ogni tinta che si intende misurare.

Figura3. Test chart per le tre varianti di CxF/X-4.

A seconda della tipologia di strumento è possibile scegliere tra lettura a scansione o a tacca singola, con unica o multipla misurazione. Una volta avviata la procedura, il software effettua la lettura delle tacche in modalità spettrale per creare i dati CxF/X-4 (Figura 4).

Figura 4. Lettura delle tacche con lo spettrofotometro.

A questo punto si apre una schermata dove è possibile visualizzare nella parte superiore gli spettri di reflettanza delle 22 tacche sia in modalità singola che aggregata, mentre in quella inferiore bisogna obbligatoriamente inserire i metadati con tutte le informazioni necessarie per sfruttare appieno questo standard. Nella prima sezione vanno inseriti il tipo di supporto, il processo di stampa, la finitura superficiale, il nome della tinta e del supporto, un identificatore numerico per l’inventario, il brand owner e un eventuale contatto di chi ha effettuato le letture. Di seguito vanno indicate le tolleranze e le impostazioni da utilizzare per la certificazione della tinta, tra cui quali delle 11 tacche è necessario misurare, il ΔE massimo, l’indice di metamerismo, l’angolo di misurazione, l’illuminante e l’osservatore standard. Infine vanno definite le modalità di misurazione utilizzate nello strumento, come il metodo (M0, M1, ecc…), la geometria, i filtri e la tipologia di fondo (backing). Ultimata la compilazione dei metadati si procede con il salvataggio di un file CxF/X-4 per ogni definizione di colore, oppure combinando definizioni multiple di colori spot in un unico documento, ottenendo così la carta di identità precisa per ogni tinta, con tutto quello che serve per il confronto dei dati (Figura 5).

Figura 5. Inserimento dei metadati e salvataggio del CxF/X-4.

Infatti, lo standard prevede che il file CxF/X-4 possa includere un solo colore, una libreria o ancora meglio un’intera mazzetta. Oltre a questo è possibile ottenere un report stampabile, contenente un riepilogo generale per ogni tacca della tinta misurata, che è un’opzione aggiuntiva di grande utilità per avere sempre a portata di mano tutti i valori spettrali, colorimetrici e di incremento tonale (Figura 6).

Figura 6. Report con le misurazioni in valori spettrali, colorimetrici e di incremento tonale.

Questa moltitudine di informazioni può essere archiviata e gestita su un proprio spazio cloud, in modo tale che clienti e fornitori possano fruirne secondo criteri di accesso ben definiti. Un esempio pratico potrebbe essere quello di un brand owner, che definisce le tinte piatte in formato CxF/X-4 e le rende disponibili lungo tutta la filiera di lavorazione, mantenendo così in maniera molto semplice e ordinata un database centralizzato dei colori spot.

Progettazione e Pdf

Molti strumenti di progettazione grafica consentono al momento solo l’importazione dei valori L*a*b* del solido contenuti nel CxF/X-4, pertanto a oggi manca a monitor una rappresentazione accurata nei passaggi tonali della tinta e nell’aspetto della sovrastampa. Questa lacuna sarà sicuramente colmata nelle future versione dei software, nel frattempo però è possibile esportare il CxF/X-4 in Adobe Swatch Exchange (Figura 7) e caricare i campioni nella paletta dei colori di Indesign, Illustrator e Photoshop (Adobe Creative Cloud).

 

Figura 7. Esportazione del CxF/X-4 in Adobe Swatch Exchange.

Ciò consente perlomeno di utilizzare dei valori colorimetrici precisi, perché misurati sul reale supporto utilizzato per la stampa, invece che fare affidamento su quelli ipotetici disponibili nelle librerie Pantone. Uno dei grandi vantaggi di questo standard, è l’opportunità di incorporare per ogni colore spot, tutte le informazioni sopra descritte all’interno dello stesso file PDF/X-4 utilizzato per la stampa. Ciò si traduce in un aumento significativo di produttività, in quanto quello che finora doveva necessariamente essere raccolto e inviato fisicamente a ogni anello della catena produttiva, non è più necessario. Poiché tutto è contenuto in un singolo file digitale, una copia dello stesso può essere inviata in giro per il mondo in pochi minuti, contenendo al suo interno tutti i dati necessari per riprodurre accuratamente il lavoro. Il mercato sta sempre più convergendo su tecnologie standard e normate da ISO, che possono includere informazioni o funzionalità aggiuntive all’interno del PDF come unico contenitore universale. A tal proposito è disponibile un’approfondita analisi sul tema, nell’articolo «Il futuro è lo standard» pubblicato ad aprile 2015. L’applicazione consente di aprire un file PDF/X-4 e visualizzare le informazioni relative all’intento di output e all’elenco delle tinte piatte presenti nel documento. Avendo già preparato preventivamente una serie di misurazioni definite in CxF/X-4, è possibile assegnare manualmente o in automatico (attingendo da una propria libraria aziendale) i corrispondenti dati spettrali ed eventualmente cambiare l’ordine di stampa degli inchiostri, per simulare in modo più preciso la prova colore e la resa di stampa (Figura 8).

Figura 8. Assegnazione nel PDF/X-4 dei corrispondenti dati spettrali e ordinamento della successione di stampa degli inchiostri.

Questo aspetto è fondamentale in quanto l’opacità di un colore definisce come esso cambia quando è stampato sopra un altro inchiostro. Un esempio potrebbe essere un colore spot al 70% stampato su uno diverso al 35%. Volendo è consentito intercalare le tinte piatte anche tra i vari colori della quadricromia. A questo punto il PDF/X-4 è pronto per essere distribuito presso l’azienda grafica, che dovrà provvedere alla realizzazione del prodotto stampato. Chi riceve il file ha la possibilità tramite la stessa applicazione di estrarre i dati e di utilizzarli per la formulazione dell’inchiostro (effettuata solitamente utilizzando il CxF3) e per certificare la stampa. Un’altra attività molto interessante è quella di utilizzare la definizione della tinta contenuta nel PDF/X-4 per la conversione del colore in quadricromia o nello spazio colore della periferica di output, come ad esempio la macchina per la prova colore o quella effettiva di stampa.

La certificazione

La fase finale del flusso CxF/X-4 è rappresentato dalla certificazione, per documentare che i colori siano stati stampati correttamente. Si procede prelevando un foglio macchina e lo si misura con lo spettrofotometro, verificando che le tinte siano nella tolleranza indicata nella definizione del CxF/X-4. L’applicazione permette di importare il file fornito o estratto dal PDF/X-4 e propone in automatico di fare le letture delle tacche richieste per il confronto, anch’esse definite nel CxF/X-4. A lato del pannello di certificazione è visibile il totale delle tacche da verificare, le rimanenti ancora da leggere, quelle fallite e quelle completate con successo (Figura 9).

Figura 9. Certificazione della tinta nella tolleranza indicata nel CxF/X-4.

Nel caso il brand owner richieda una tolleranza molto stretta e una notevole precisione anche nella gradazione dei toni, sarà necessaria la misurazione di parecchie tacche, nella maggior parte dei casi però oltre al solido è richiesto solitamente il 50%. È bene quindi verificare prima della stampa, quali percentuali utilizzare nelle scalette da posizionare nelle zone di sfrido del foglio macchina. Terminata la procedura si ottiene un report contenente un riepilogo generale per ogni tacca della tinta misurata, che riporta il risultato della certificazione con tutti i valori spettrali, colorimetrici e metamerici (Figura 10).

Figura 10. Riepilogo che riporta il risultato della certificazione con tutti i valori spettrali, colorimetrici e metamerici.

L’applicazione ha anche la facoltà di esportare i risultati della certificazione in formato PQX (Print Quality eXchange), il nuovo standard (futura norma ISO 20616-2) che intende agevolare la trasmissione dei dati sulla qualità di stampa, per uno o più campioni della stessa tiratura. In questo modo chi gestisce il brand ha la capacità tramite lo stesso software, di importare il report e verificare in tempo reale l’accuratezza con cui si sta riproducendo il colore, mentre lo stampatore ha la facoltà di tracciare digitalmente l’andamento della produzione e archiviare le informazioni per eventuali ristampe.

 

Con quale formato (mi) salvo?

Progettiamo un lavoro, lo finalizziamo, lo salviamo e scatta la fobia di quale formato di salvataggio o esportazione utilizzare. Qual è il migliore? Ma se comprimo che cosa succede?Statisticamente la fobia in realtà forse non è così diffusa perché si usano sempre i soliti due o tre formati. Ma siamo davvero sicuri di fare la scelta migliore? E ne sappiamo il motivo? Di tanto in tanto capita anche di ricevere indicazioni errate, magari in buona fede, a cui seguono contrasti o litigi perché coinvolgono creativi, fornitori ecc…Quindi?

Il flusso nel desktop publishing

In buona parte il flusso di lavoro che si è andato affermando negli ultimi 15 anni è, in questo senso, molto più semplice e lineare di quello precedente. Oggi si riescono a importare direttamente anche diversi formati nativi (o di lavoro), saltando spesso la parte di esportazione specifica, questo soprattutto se lavoriamo con la Creative Suite di Adobe. In ultima battuta infine si esporta in PDF, seguendo dei predefiniti che salvano spesso capra e cavoli, quando addirittura non è il fornitore stesso a fornirci il file job option per azzerare i rischi.

Elenco dei formati di esportazione in Photoshop. Un elenco ancora più lungo si può trovare nel comando Apri, dove vengono mantenuti anche molti altri formati storici ormai desueti (ma non si sa mai).

Formati di lavoro

Fintanto che si lavora sul file, quindi nella quasi totalità del tempo, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che questi siano i formati preferibili. Sono i cosiddetti formati nativi, quelli con cui un applicativo salva e riapre i suoi file di modo da mantenere tutte le caratteristiche operative e i criteri di editabilità specifici, e questo lo fa nel minor tempo possibile compatibilmente alla complessità del file, ottimizzandone la compressione e lo spazio occupato sui dispositivi. Sono formati in costante miglioramento, al pari del software che li genera, pertanto è possibile che col tempo diventino superati dalle loro stesse evoluzioni. Nella quasi totalità dei casi è sempre garantita la retrocompatibilità, di modo che anche a distanza di anni sia possibile aprirli senza limitazioni. Esempi di questi formati sono: PSD (Photoshop), AI (Illustrator), ID (Indesign), QXD (Xpress).

Una piccola, ma doverosa precisazione va fatta in relazione al formato fotografico RAW: qui è improprio parlare di file di lavoro dal momento che nasce come file chiuso a cui viene associato un file XMP dove risiedono le modifiche effettuate dall’utente. È a tutti gli effetti un formato nativo, che contiene tutti i dati grezzi ottenuti in fase di scatto, ed è l’unico caso in cui con l’evoluzione degli algoritmi di calcolo è possibile ottenere immagini sempre migliori a partire dallo stesso file di partenza. In altre parole: un RAW di 15 anni fa aperto con un sw dello stesso periodo genera un’immagine peggiore dello stesso RAW aperto con un sw dei giorni nostri.

Formati di interscambio

Questa categoria è sempre stata molto circoscritta (e ormai inesistente), per lo meno nel suo significato più generico: l’esigenza qui sarebbe quella di salvare in un formato versatile che consenta anche a un applicativo diverso da quello di partenza di mantenere l’editabilità dei vari contenuti. Normalmente il file di lavoro è specifico, per cui, parlando di Photoshop, un eventuale file PSD a livelli (tracciati, canali, ecc…) è improbabile che possa essere aperto con un altro software mantenendo esattamente struttura, opzioni parametriche ecc… anche perché un software diverso avrà inevitabilmente caratteristiche operative diverse, per quanto analoghe. Con il passare degli anni però alcuni sw sono diventati così pesantemente standard di mercato che gli applicativi concorrenti, al posto di basarsi su ipotetici formati di interscambio, hanno preferito considerare direttamente i file proprietari acquistando i moduli di importazione o sviluppandoli internamente con un reverse engineering. Ecco quindi che il file PSD, magari in forma più semplificata, può essere ormai aperto da molti programmi (Anteprima di OSX, Xpress ecc…), anche solo nella sua versione di immagine composita. Un esempio di file di interscambio può essere l’U3D, per l’ambito 3D naturalmente, in controrelazione al 3DS o all’OBJ rispettivamente proprietari di 3D Studio e Maya (comunque di per sé aperti abbastanza agevolmente anche da molte altre applicazioni).

 

Formati di esportazione

Qui entriamo nel nocciolo della questione. Un’esportazione dovrebbe (anzi, deve) essere subordinata a un determinato output, con caratteristiche ben precise in funzione delle esigenze di consegna o di utilizzo. Parlando di file per la stampa con contenuto raster/vettoriale misto la risposta universale sarebbe il PDF, ma i diversi parametri con cui può essere esportato apre un ventaglio di casistiche molto eterogeneo. Parlando di immagini invece possiamo circoscrivere l’esempio ad alcuni formati specifici: TIFF, JPG e, più recentemente, PNG, ognuno con caratteristiche proprie che lo possono rendere preferibile in funzione degli utilizzi.

Le compressioni

Un’associazione errata che spesso ho riscontrato nei vari ambienti grafici è legata al concetto di compressione, unitamente alla perdita di qualità del file. Questo può avere senso parlando di compressioni come il JPG, definita appunto Lossy (con perdita di dati), ma è totalmente errata quando si usano altri sistemi di compressione opzionali come l’LZW o lo ZIP (del Tiff) o l’RLE (del BMP) tanto per citarne un paio. Ho detto «opzionali» perché possono essere (o meno) attivati dall’utente, ma pressoché la totalità dei formati di file esistenti utilizza una propria modalità di compressione dati atta a ottimizzare lo spazio occupato in funzione della quantità di dati contenuti. Generalmente vale la regola che più un file è compresso e più tempo ci vuole per il processo di decompressione, quindi occuperò meno spazio sui dispositivi di salvataggio (HD, SSD, Usb Keys, CD, DVD, BluRay ecc…), ma richiederò più risorse di calcolo all’apertura. Viceversa un file non compresso (o compresso poco) avrà un peso grezzo elevato ma una velocità di apertura massimizzata, ecco perché per un progetto con molte pagine e molte immagini può essere ben preferibile utilizzare immagini non compresse, ma apparentemente molto pesanti, al posto di immagini molto compresse e apparentemente molto leggere. Funziona come la logica dei pacchetti per i corrieri: per l’invio si prepara una scatola con dentro tutti i pezzi messi bene, per l’utilizzo si apre la scatola e si montano i pezzi. Assolvono a due scopi diversi.

Salviamo il JPG

Mentre c’è ben poco da dire riguardo a una compressione LZW o ZIP nei file TIFF (sono Lossless, non fanno danni, fine del discorso), bisogna spendere due parole su quella JPG. Se è vero che da tempo esiste un poco usato JPG2000 dotato di (anche) una modalità di compressione Lossless, il JPG usato correntemente è risaputo che danneggi l’immagine in maniera irreversibile e in maniera progressiva, anche utilizzando la massima qualità (e minima compressione) possibile. Il processo di apertura/salvataggio/chiusura ripetuto più volte porta a un deterioramento dell’immagine come se ne facessimo ogni volta un riassunto, tanto più evidente quanti più sono i passaggi. Photoshop offre 12 livelli di qualità nel salvataggio tradizionale e una scala da 0 a 100% per il Salva per Web/Esporta risorse, oltre a un più generico elenco esplicito di Minima/Bassa/Media/Alta/Massima nelle impostazioni interne al PDF. Di quei 12 livelli non ha mai senso usare oltre il 10 in quanto l’11 ed il 12 erano stati introdotti storicamente dagli sviluppatori (e poi lì dimenticati) a scopo di test, ma di fatto hanno una differenza visiva che rasenta lo 0 al prezzo di un peso che lievita sensibilmente. La scala percentuale invece si basa su algoritmi più recenti e raffinati, ma non sono adatti a immagini grandi, tipicamente dedicate alla stampa, sostanzialmente perché richiedono molte più risorse di sistema e molto più tempo di elaborazione.

Ma il JPG quanto rovina?

A questa domanda generalmente non risponde nessuno, o quasi. La compressione JPG considera una matrice di quantizzazione di 8×8 pixel, entro la quale compie delle approssimazioni legate a una media tra valori di luce e/o valori cromatici, riassumendoli e semplificandoli. Mentre per immagini dedicate al web o al video questi blocchetti di 8×8 possono risultare visibili a fronte di valori di qualità bassi o di reiterati salvataggi, lo stesso non si può dire per le immagini dedicate alla stampa dove sono in gioco molti più pixel. È piuttosto logico pensare che su un’immagine di 800 pixel di lato l’incidenza di questo, passatemi il termine, mosaico di compressione, sia molto più evidente e potenzialmente dannosa, di quanto non possa esserlo su un’immagine da 4000 pixel che poi va stampata (a cui si somma quindi un minimo impastamento dato dal dithering o dal retino di stampa).

Facendo qualche rapido calcolo in termini di solo dettaglio l’immagine da 4000 pixel stampata a 300 ppi (non dpi, mi raccomando) occupa uno spazio di circa 33 cm di lato, all’interno di quest’area una matrice di 8×8 pixel è di circa 0,7 mm, quindi scarsamente risolvibile a una distanza superiore ai 25 cm dall’osservatore. In questi termini demonizzare il JPG sarebbe inutile, oltre che poco logico. A questo dobbiamo aggiungere tuttavia una certa difficoltà nella gestione delle campiture colorate omogenee, come i cieli, dove la compressione JPG tende a generare delle posterizzazioni decisamente poco piacevoli, anche a valori di qualità elevati.

In conclusione

In base alla distanza dell’osservatore dall’elaborato stampato, o dall’eventuale video, e alla tipologia di immagine da salvare, il JPG può andare benissimo o un po’ meno bene: immagini con molti dettagli sottili (alte frequenze) e campiture uniformi come certi cieli possono risentire della compressione, in tutti gli altri casi l’immagine risulta sostanzialmente indistinguibile dall’originale, anche a fattori di zoom elevati e in comparativa simultanea.

La comparativa di una porzione di immagine molto grande (oltre 42 mpixel) con l’originale in alto e la versione compressa a qualità 0 in basso. Entrambe sono state poi ingrandite per rendere più evidenti le differenze sulla rivista stampata. Qui riusciamo a rendere visibile sia l’impastamento del micro dettaglio sia la pastorizzazione dello sfondo.
Una comparativa dove vengono messe a confronto le differenze tra l’originale e la relativa versione salvata in JPG a qualità molto alta (qualità 10, a sinistra) e molto bassa (qualità 0, a destra). Il risultato di sinistra è stato amplificato di oltre 100 volte perché fosse visibile, quello di destra invece solo del doppio e per pure esigenze di stampa su rivista. Senza l’amplificazione dei risultati quella di sinistra sarebbe stata all’occhio totalmente nera (quindi a maggior ragione indistinguibile dall’originale se visualizzata in modalità normale) mentre quella di destra avrebbe delineato buona parte degli artefatti, anche se non in maniera così evidente. L’immagine di destra corrisponde alla comparativa sovrapposta delle foto in immagine 2.

 

 

 

Datemi un metadato e vi solleverò il mondo

Dotarsi di un flusso di lavoro integrato che porta all’automazione nella prestampa e comprende diverse attività che solitamente prevedono l’intervento umano è oggi imprescindibile. A tutto vantaggio della cura del cliente, della qualità e del business.

Il mondo della stampa digitale è stato analizzato in lungo e in largo soprattutto per quanto riguarda la seconda parte del concetto: quella «stampa digitale» di cui abbiamo appreso le tecnologie, le peculiarità tecniche, il posizionamento sul mercato, la nascita di business altrimenti impraticabili come le piccole tirature e l’on demand. Adesso occorre concentrarsi sull’altra parte della barricata: quel mondo che è sempre più digitalizzato, dove governare i dati è diventato di vitale importanza in qualsiasi settore. Per sfruttare nel modo migliore le opportunità di questo mondo occorre comprenderne la logica, che si basa su un concetto semplice, ma potentissimo: il flusso di dati. Ogni volta che premiamo il tasto invio su uno dei nostri dispositivi trasmettiamo informazioni a qualche altro dispositivo che dovrà interpretarle, gestirle e probabilmente inviarle a sua volta.

Questo flusso di informazioni è il meccanismo di fondo di ogni operazione nel mondo digitale. La tecnica che permette il continuo dialogo tra dispositivi è la metadatazione, cioè la marcatura delle informazioni in modo tale che si possa ottenere il dato richiesto condividendo la sintassi del linguaggio che veicola le informazioni. In pratica i metadati non sono altro che un sistema di dati conosciuto e condiviso che permette di gestire altri dati sconosciuti e da condividere. Benché possa sembrare una cosa da informatici, in realtà i metadati sono utilizzati dall’uomo probabilmente da sempre. Basti pensare a quando cerchiamo un prodotto al supermercato. Per essere certi di comprare un Chianti non abbiamo bisogno di aprire tutte le bottiglie e assaggiare il contenuto, andiamo sul sicuro leggendo le etichette (metadati) che riportano il tipo di contenuto (dati) sulla base di un sistema di etichettatura (linguaggio), condiviso e conosciuto da tutti noi (dispositivi).

Il procedimento è esattamente lo stesso anche nel mondo digitale, ed è ben riconoscibile guardando la sintassi di uno dei più popolari linguaggi utilizzati per veicolare le informazioni matadatate: l’XML (Extensible Mark-up Language). Proprio come avviene per i prodotti di un supermercato a ogni informazione viene assegnata un’etichetta.

In questa ottica possiamo davvero aggiornare la celebre frase di Archimede. Se la leva è un concetto base per il mondo fisico perché permette di gestire qualsiasi peso, il metadato lo è per il mondo digitale, perché in grado di gestire e veicolare immensi volumi di informazioni, basti pensare alle indicizzazioni che permettono le ricerche sul web.

I metadati nei flussi di lavoro

In effetti è così che può essere inteso il nostro lavoro quotidiano: dal ricevimento dell’ordine alla sua consegna, passando dall’amministrazione alla prestampa, dal reparto di confezione al reparto logistico, è tutto un susseguirsi di passaggi in cui vengono trasmesse delle informazioni. In questo articolo mi preme focalizzare il punto sul reparto di Prestampa, che più di ogni altro si trova nel mezzo del mare, caricato di informazioni indispensabili al proprio compito, ma nello stesso tempo appesantito da esse nello svolgere le mansioni di prestampa classiche, che sono legate ai file da portare in stampa in tempi sempre più stretti costi quel che costi. Anche la commessa più banale si porta dietro una decina di informazioni da gestire. Poniamo il caso di un semplicissimo ordinativo di 100 biglietti da visita: quantità, tipo di carta, colore, data di consegna, indirizzo, ragione sociale di fatturazione, formato, tipo di stampa, eventuali nobilitazioni, ecc… sono tutte informazioni accessorie rispetto ai file, ma indispensabili per il loro trattamento. Poi arriva il file, che non è altro che un ulteriore insieme di dati da gestire: dalla ricezione all’archiviazione e attribuzione a un cliente e a una commessa, al recupero delle informazioni per il tipo di lavorazione da eseguire, ecc… In seguito ci sono le operazioni tecniche di prestampa vera e propria, dal preflight alla normalizzazione del layout di pagina e dello spazio colore, dalle font alle abbondanze… e chissà, magari, anche una creazione del PDF da formati nativi (succede ancora…). Successivamente occorre eseguire un’imposizione, che varia a seconda della macchina più idonea al prodotto richiesto e alla disponibilità produttiva. È necessario, anche, che molte di queste informazioni passino al reparto di stampa, per far sì che gli operatori compilino i job ticket delle periferiche con i dati corretti per quanto riguarda il tipo di carta, il numero di copie e il tipo di fascicolazioni. E altri tipi di informazioni devono essere passati al reparto confezione per procedere al taglio e alla confezione. Infine, altre informazioni serviranno al reparto logistico e amministrativo.

Tutte queste sequenze evidenziano come il lavoro di prestampa sia composto da operazioni, spesso ripetitive, a volte piccole, che richiedono del tempo e un continuo passaggio di informazioni tra operatori e tra reparti. Un insieme che è da considerarsi come un corpus unico di dati che si deve gestire per decine e decine di volte al giorno almeno, dal momento che «dar da mangiare» a macchine con performance di migliaia di fogli/ora, i cui piani di ammortamento danno ormai per scontato due turni di lavoro, con lavori dalle tirature sempre più corte e i margini di guadagno sempre più asfittici può diventare ansiogeno se non viene affrontato nel modo giusto da chi è adibito al «foraggiamento» delle stesse.

La svolta avviene quando ci si dota di software in grado di gestire in maniera strutturata queste informazioni, garantendo così un flusso di dati (file) e di metadati (informazioni commessa) corretto e tempestivo in ogni reparto e a ogni operatore. La parola chiave è integrazione. Quando si inizia a ragionare sotto questa ottica la gestione delle informazioni dall’essere un problema diventa la risorsa.

La prestampa analogica e la prestampa integrata

Una prestampa analogica, cioè che non gestisce un flusso, compie queste operazioni utilizzando i computer come se fossero delle isole su cui portare ogni volta i file e le informazioni commessa necessarie. Questi dati arrivano nei modi più svariati: via mail, via web o su supporti fisici per quanto riguarda i file e attraverso schede cartacee, informazioni orali, schermate di gestionali da visualizzare per quanto riguarda le informazioni commessa. A volte poi, l’operatore si avvantaggia con delle automazioni fatte di azioni correttive da applicare sui file, azioni che possono essere condivise o meno con i colleghi, o con delle elaborazioni compilate in una hot folder in rete da utilizzare caricandogli e scaricandogli i file a mano. In questo ambiente ogni operatore in pratica opera in maniera individuale, avvalendosi delle proprie competenze e condividendo, a volte sì a volte no, le proprie soluzioni e le proprie procedure tecniche. Di solito, avviene che i lavori più complicati spettino all’operatore più bravo, il quale fa prima a svolgerli che a delegarli, dal momento che formare i colleghi richiede impegno e, soprattutto, tempo. Inoltre, in questa situazione tutto ciò che non è il file diventa una complicazione da gestire, arrivando a volte a essere una «distrazione» che mette a repentaglio la corretta esecuzione dei compiti di prestampa. L’integrazione in questi casi è fatta, per così dire, a mano dagli operatori «ognuno come gli va» (citando Lucio Dalla). Allora perché non far di necessità virtù? Perché non far diventare quelle informazioni i metadati in grado di governare i file? Ed è proprio come opera una prestampa integrata. Dotandosi di una piattaforma software dedicata ecco che si possono progettare flussi di lavoro in cui i file vengono portati sull’interfaccia dell’operatore insieme alle relative informazioni commessa strutturate e complete; preoccupandosi magari anche dell’associazione in automatico dei file alla relativa commessa o preoccupandosi di scaricarli da repository remoti via ftp. La montagna è andata da Maometto per così dire. In questo ambiente l’operatore avrà a disposizione tutti i dati tecnici e gestionali per prendere decisioni e impostare il proprio lavoro. Il sistema eseguirà le operazioni di correzione, color management, imposizione e notifica che l’operatore vorrà eseguire. Ogni opzione impostata dall’operatore o presente nei dati commessa diventerà un metadato che guiderà i file nel prosieguo della produzione. A punto metallico quello che è stato ordinato a punto metallico, a filo refe quello che è stato ordinato a filo refe per intenderci semplificando. Quelle operazioni citate precedentemente verranno svolte velocemente perché veloce potrà essere la decisione, senza contare che alcune di queste verranno eseguite in automatico senza l’intervento dell’operatore. Calcoli come il numero di fogli macchina sulla base della resa, la scelta della macchina più adatta, la verifica della corrispondenza file/commessa, la conversione colore più indicata, la compilazione dei job ticket sulle consolle delle stampanti o la stampa delle etichette di spedizione saranno tutte operazioni da cui gli operatori saranno sollevati. A loro spetterà il compito di governare e pilotare il sistema, controllare la qualità del lavoro e la cura del cliente.

Una nuova funzione: il data-entry

In questa nuova logica integrata l’informazione è un bene prezioso. L’operazione che in gergo si chiama data entry diventa di vitale importanza per tutta l’azienda, perché permette di inserire a sistema tutte le informazioni che servono alla gestione delle commesse. Maggiore sarà la precisione e la completezza dei dati inseriti, maggiore sarà la velocità e l’esattezza delle operazioni eseguite dal sistema stesso e dagli operatori, e minori saranno anche i possibili errori umani di trascrizione o distrazione e gli stop dovuti alla mancanza di informazioni indispensabili.

Una mansione, quella del data-entry, a cui si dà troppa poca importanza, ma che in un mondo digitale si dimostra essere il turbo di un’azienda. Non mi stupirei se il data-entry diventasse una vera e propria professionalità anche nel nostro settore, dal momento che per strutturarlo in maniera ottimale bisogna conoscere tutto il ciclo produttivo dell’azienda e avere competenze trasversali. Una sorta di responsabile di produzione in nuce.

Il nuovo operatore della prestampa

L’operatore analogico svolgeva il proprio compito isolato, mettendo in pratica di volta in volta la propria competenza sui file alla luce dei dati commessa, svolgendo il proprio compito per così dire a mano. L’operatore integrato mette la propria competenza al servizio del flusso di lavoro, passando procedure e metodi alla configurazione del sistema in modo da uniformare per tutto il reparto le procedure e le modalità di intervento sui file. Le informazioni prima erano una variabile spesso impazzita, mai sotto il controllo dell’operatore, che doveva sperare in una loro completezza senza la quale il lavoro sarebbe proceduto a singhiozzo complicando ulteriormente la gestione complessiva del lavoro. Adesso le informazioni sono gestite come un bene prezioso attraverso il data entry, arrivano strutturate e complete direttamente sulla work station, un sistema di log e notifiche permette anche un alto livello di informazione su eventuali disguidi o incompletezze. L’operatore può dedicarsi al proprio lavoro avvalendosi di un sistema che gli mette a disposizione una consolle di controllo che soddisfa esattamente la sua esigenza lavorativa: poter gestire come un corpus unico file e informazioni commessa.

Conclusioni

In linea di massima tutto questo discorso rientra nel piano Industria 4.0, ma è abbastanza disarmante apprendere che il piano all’inizio coinvolgesse solo macchine, ferri, hardware. Ora è stato allargato agli investimenti in software anche se vincolati comunque all’acquisto di hardware. È vero che il piano serve a incentivare gli acquisti, ma è preoccupante che si pensi ancora che i software siano degli optional. D’altronde tutto ciò fa da specchio alla realtà del Paese, dove aziende che spendono centinaia di migliaia di euro in macchinari poi frenano di fronte a qualche migliaia di euro di software, senza capire che saranno proprio quel migliaio di euro di software a fargli fruttare l’investimento di centinaia di migliaia di euro in macchine. Non è sempre così chiaramente, anzi, nel nostro settore questa logica è stata sfruttata molto bene dai grandi portali web to print, che hanno costruito il loro business sui software prima ancora che sulle macchine. Stiamo parlando di realtà industriali incentrate sull’automazione e su una forte standardizzazione dei prodotti, ma è una logica che può portare grandi benefici anche alle piccole e medie aziende di cui è costellato il nostro Paese. Introdurre in azienda un flusso di lavoro che permette di risparmiare e normalizzare i processi aziendali, introducendo delle automazioni lì dove le procedure lo permettono e liberando gli operatori da compiti ripetitivi a tutto vantaggio della cura del cliente e della cura della qualità, non può che giovare al proprio business. Basterebbe calcolare il tempo di ogni operazione citata, moltiplicato per il numero di commesse giornaliere, per vedere i pochi minuti di ogni singola procedura diventare ore. Il calcolo del rendimento del capitale investito da un’azienda per apportare questi miglioramenti gestionali (ROI) parla di centinaia e centinaia di ore all’anno.

Mi piace concludere citando la stampa offset perché se tutto ciò che è stato detto lo si è detto prendendo ad esempio la stampa digitale è stato solo per comodità espositiva. Il discorso vale per tutti i tipi di stampa. Cambia solo l’output in un flusso che invece di compilare un job ticket di una stampante digitale definirà, ad esempio nell’offset, l’apertura dei calamai sulla base delle coperture di stampa calcolate da un Rip. Il motivo è semplice: fanno tutte parte del mondo della stampa nell’era digitale.